Era meglio prima - Calcio News 24
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2014

Era meglio prima

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Il calcio al tempo degli hipster

Molte persone a me vicine mi dicono spesso che sono un nostalgico. Non hanno tutti i torti. Penso però che sia comune a tanti quello di vivere in un perenne stato intermedio tra presente e passato, col rischio di non godersi mai i momenti presenti. Attendiamo il futuro immaginandolo sempre più bello di come stiamo ora o rievochiamo il passato come fosse un’età dell’oro in cui tutte le cose andavano per il verso giusto. Un mio carissimo amico, noto ai più con il nome di Emis Killa, scrisse un giorno che le cose sono sempre più belle prima di averle ottenute e dopo averle perse e che, probabilmente, stando così le cose, il presente non ce lo meritiamo. Nulla di più vero.

Io credo però che le emozioni che mi suscitavano la musica e il calcio qualche anno fa erano differenti. È chiaro, non ho più 16 anni e ho superato da un bel pezzo l’età in cui ti crei i miti e gli idoli, ma prima, tutto, aveva davvero un altro sapore. Io sono riuscito, seppur per poco, a vivere quella stagione in cui esistevano le subculture, organizzate quasi territorialmente in una città come Milano e fieramente attaccate ai loro look d’appartenenza: i punk, i dark, i metallari, e poi i gabber, i truzzi, i b.boy. Oggi, colpa il diffondersi di certe droghe, la tecnologia, l’hipsterismo dilagante tutto è stato un po’ annacquato, i ragazzi sono tutti uguali e quello che poteva essere un esperimento avanguardistico, il crossover, è diventato un calderone amorfo di generi musicali senza cuore e senza identità. È un luogo comune, ma non so come dare torto a chi ritiene che il mondo era meglio prima.

Nel calcio noto le stesse identiche cose. Quando ero piccolo io, se una cosa mi appassionava, come il calcio, mi informavo, ossessivamente e con fatica, attraverso tutti gli strumenti che avevo a disposizione: le figurine Panini, gli almanacchi, le videocassette, i libri. Oggi, nell’era dello smartphone, dove si può giungere in pochi secondi a una miriade di informazioni muovendo semplicemente un dito, i ragazzini non sembrano essere più interessati ad approfondire nulla. Forse la facilità con cui può essere fatta, ci ha privato del gusto, del piacere e della soddisfazione della ricerca.

Mi manca il mio giorno sacro (sapete di che parlo!), quello da dedicare al Dio Pallone in cui le partite erano tutte alle tre del pomeriggio, e non spalmate sul modello yankee nell’arco della settimana, e terminava con Novantesimo Minuto. Mi mancano il pallone rosso e i campi innevati, solcati da scarpe da calcio a 13 rigorosamente nere. Mi manca la Serie A delle 7 sorelle, dove quattro vengono promosse dalla B e quattro retrocedono.  Mi manca la Coppa delle Coppe, il Vicenza di Guidolin, il Parma di Scala, il Torino di Mondonico. Sì, mi manca quell’età dell’oro del calcio in cui i giocatori avevano i baffi!

A quei tempi il giornalismo era reale e non parlo solo di mostri sacri come Gianni Brera, ma anche di macchiette del piccolo schermo come Maurizio Mosca, sempre capace di affrontare il calcio per quello che è, ovvero un gioco, e di trattare con la giusta leggerezza ed ironia i suoi problemi. A quei tempi si parlava di calcio e si approfondiva il calcio. Non c’era Twitter e non facevano notizia le foto postate da Balotelli e Icardi. I calcio era uno sport, non una porta d’ingresso per il mondo dello spettacolo, quasi fosse un talent show.

Quando andavo all’oratorio il mio sogno era ripercorrere i passi dei miei idoli di ragazzo, Van Basten, Baresi, Maldini, giocare una finale di Coppa dei Campioni, vincere i Mondiali. Con questo spirito andavo all’oratorio all’una e mezza e prima della sette non ero a casa. Giocavo con i più grandi. Ogni scusa era buona per giocare a calcio. Se fare una partitella con le porte era impossibile si faceva il muretto oppure si andava sul campo di basket, di cemento, e lì l’abilità era colpire il palo del canestro. Il più figo non era quello col cellulare o l’ipod di ultima generazione, manco sapevamo cos’erano, ma quello che palleggiando sapeva fare passare la palla sotto il piede e riprenderla al volo. Oggi i bambini manco ci vanno più all’oratorio. Non so, forse la credono una cosa da sfigati e, d’altronde, oggi hanno luoghi di ritrovo migliori: What’s Up, Facebook, Instagram.

Il nostro Paese è stato conservato e salvato dalla miseria e se ancora ha qualcosa di buono lo deve all’atavica povertà di certi territori. Dice bene Leo Longanesi quando, all’interno del suo Taccuino, La sua signora, scrive:

 

La miseria è ancora l’unica forza vitale del Paese e quel poco o molto che ancora regge è soltanto frutto della povertà. Bellezze dei luoghi, patrimoni artistici, antiche parlate, cucina paesana, virtù civiche e specialità artigiane sono custodite soltanto dalla miseria. […] Perché il povero è di antica tradizione e vive in una miseria che ha antiche radici in secolari luoghi, mentre il ricco è di fresca data, improvvisato […] La sua ricchezza è stata facile, di solito nata dall’imbroglio, da facili traffici, sempre o quasi, imitando qualcosa che è nato fuori di qui. Perciò quando l’Italia sarà sopraffatta dalla finta ricchezza che già dilaga, noi ci troveremo a vivere in un paese di cui non conosceremo più né il volto né l’anima”

 

Non stupiamoci se il calcio italiano e il Paese sono in difficoltà. Io quando cammino per le strade non vedo più i bambini fare i campi con le bluse di scuola e inventare un pallone da un barattolo. Altro che cantera, i campioni del mondo nascono così! Quello che accadrà domani è che una generazione cresciuta a Play Station e social network non avrà i suoi Totti, Del Piero, Baggio. L’unica speranza è che i figli degli immigrati, forse più attaccati dei nostri ai vecchi valori, ci diano una mano a risollevare un panorama sconcertante come quello del calcio giovanile italiano. La speranza è quella di una Nazionale meticcia ed italiana!

Sono nostalgico, è vero, e vorrei tornare alla mia infanzia, quando “mi bastava dare un calcio al pallone come Robinho”. Mi piacerebbe tornare ad avere 10 anni, ma a quando avevo io 10 anni. Non scambierei mai i miei 10 anni con quelli dei bambini di adesso.