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L’idea del bel gioco: sulla Juve di Allegri e non solo

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max allegri

Con il fallimento dei sondaggi delle elezioni americane – l’ennesimo, ormai è un classico di ogni luogo e momento storico – conviene farselo in casa il sondaggio

Vista l’altra lezione proveniente dagli Stati Uniti (grosso modo: 350 giornali a favore di Clinton e neanche 10 per il vincitore Trump) conviene avvicinarsi ormai con cautela al dibattito pubblico originatosi recentemente sulla carta stampata. Che per quanto riguarda il calcio e segnatamente la Juventus, sembra ormai orientato su un pensiero unico: i bianconeri giocano male. Massimiliano Allegri ha ricondotto questa valutazione ad un atteggiamento ormai di moda, uno di quei luoghi comuni che a furia di dirli diventano verità incontestabili e finiscono per imporsi come dati di fatto. Anche se, in materia di estetica del calcio, prima ancora di decidere chi gioca bene e chi no, sarebbe bene definire criteri di valutazione. Ben sapendo che l’unica oggettività nello sport, l’unica misura realmente certa, è il risultato. Che automaticamente rinvia a un’altra questione non meno “filosofica”: si può vincere praticando brutto calcio? Ed è brutto calcio chi vince da anni, senza mai un’interruzione, in un campionato nel quale sarebbe un errore di grave superficialità pensare che prevalgano le rendite di posizione, anche se ultimamente Inter prima e Juve poi hanno stabilito cicli di lunga durata, apparentemente inscalfibili?

Perciò, con tutta la laicità che un analista tifoso quale sono possiede, mi è venuta l’idea di “sondaggiare” il pubblico che generosamente partecipa a Jtv. Chiedere a loro cosa ritengano essere la definizione di bel gioco facendomi esempi storici e attuali inerenti la nostra squadra. Non intendo minimamente proporre a campione universalmente valido ciò che è uscito fuori, ma è senza ombra di dubbio estremamente interessante il coagularsi di alcune interpretazioni attorno a concetti e partite disputate. Un’indagine ricca di spunti che permette di uscire dalla concezione corrente che mi appare quanto mai priva di agganci alla realtà, per la quale ci si divide tra “giocolieri” e “risultatisti”, secondo due neologismi azzeccati proposti sulla Gazzetta dello Sport. Pensare di essere ortodossi in quelle due posizioni è assolutamente impossibile. Gli allenatori che provassero mai a sbandierare come vanto tale appartenenza praticano una distorsione dei fatti accaduti. Per tradurre meglio: Arrigo Sacchi ha sicuramente proposto un calcio innovativo e spettacolare. Ma la sua seconda Coppa dei Campioni fu vinta con prestazioni anche decisamente brutte a vedersi, eppure ben festeggiate.

Intanto, la Juve di oggi. Molti riconoscono un tasso di spettacolarità a sezioni di gara: il primo tempo con la Fiorentina e con il Sassuolo. Ovvero: il tentativo di stritolare l’avversario immediatamente e il riuscirci (o quasi). Una dimostrazione di forza regalata dall’intensità e dal valore delle giocate dei singoli e collettiva. La bellezza delle reti (di Khedira con i viola, la doppietta di Higuain con gli emiliani). La sensazione di una partecipazione corale della manovra. La sicurezza dei propri mezzi, la certificazione della propria superiorità contro avversari non deboli. Ma appena il poderoso vantaggio viene gestito e si abbassano i ritmi, magari anche arretrando il baricentro, la bellezza scompare. La Juve non piace più. Anche se con la BBC e il valore di un reparto ampiamente certificato, si vorrebbe una mentalità più offensiva per tutti i 90 minuti. Un po’ come in Liga, dove Barcellona e Real Madrid non si fermano mai, esaltando i propri attaccanti.
Poi, l’Allegri di ieri. Quello di alcuni big match: l’1-3 di Napoli, lo 0-3 di Coppa Italia a Firenze, l’identico risultato di Dortmund. Gare che hanno esaltato gesti tecnici e velocità d’esecuzione, non di rado in ripartenza. Il bel gioco coincide con la capacità di avere interpretato da grande squadra incontri decisivi, snodi della stagione (con la Fiorentina per di più con molte “seconde linee” in campo). Verrebbe da riassumere: essersi dimostrati possessori della giusta mentalità nel momento topico.

Infine, la Juve di ieri. Che viene considerata spettacolare anche in certe versioni di piena maturità nei cicli di lunga durata (la Juve del Trap con Platini; quella del 1997 che stritolava tutti e ovunque). Ma quelle che più si fanno amare per la proposta di gioco sono la prima di Lippi e la prima di Conte. Le prime, non a caso: reduci da lunghi digiuni, esempi di verticalità nel 1994-95 e d’intensità nel 2011-12, formazioni con il fuoco dentro e quel qualcosa che ruba l’occhio e che probabilmente è la quintessenza di ciò che riteniamo essere la grande bellezza: l’essere nuovi, totalmente sorprendenti e capaci di andare oltre i propri limiti. Un grumo di sentimenti, più che di nozioni tecnico-tattiche, fortemente modulato su una concezione molto juventina per la quale si è campioni non per diritto divino (giusto Platini è un’eccezione) ma perché lo si dimostra nel tempo e con una voglia irriducibile.