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Il limite di poter vincere solo nei 90 minuti

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Real Madrid campione d’Europa, Atletico ancora in lacrime: l’analisi della finale di Champions League

Florentino Perez fa oramai collezione di Champions League, Zinedine Zidane la vince da guida tecnica dopo aver già trionfato da allenatore in seconda e da calciatore: il tutto, per entrambi, con lo stesso club. Il Real Madrid, inevitabilmente il Real Madrid. Il connubio di queste tre figure – due uomini vincenti ed un club vincente – rendeva in effetti scontato l’esito della finale di San Siro una volta giunti ai calci di rigore.

ATTITUDINE – Sì, perché a ridosso di quella lotteria, il pensiero comune è piuttosto univoco: qualcuno dell’Atletico Madrid sbaglierà, la coppa con le orecchie prenderà la strada della capitale iberica colorata di bianco. Eppure sono cinque rigori a testa, in linea puramente teorica non ci sarebbe spazio per un pronostico: alla teoria però subentra la fredda pratica, la legge del vincente, di chi – quasi per consegna storica – giunge su quel dischetto con un’aura diversa. Con una predisposizione mentale differente. Il rovescio della medaglia, nonché conferma del tutto, è dato dal destino del perdente di turno: di chi ha già perso in passato in medesime situazioni e continuerà a farlo, perché di fatto incapace a sovvertire la gerarchia prestabilita. Lo stato dell’arte e della natura. Due anni fa fu il Real a rimontare nei 90, ieri l’Atletico: unica costante l’esito dell’overtime, incontrovertibile.

L’HA PERSA PRIMA – Torniamo sul pianeta Terra: la traduzione è immediata, Diego Pablo Simeone – questa finalissima – avrebbe dovuto vincerla prima. Nei tempi regolamentari. Quando ti spingi oltre il novantesimo, seppur secondo la rigida statistica siamo sul 50 e 50, nei fatti poi non lo sei. Per tutto quanto asserito in precedenza. Tradito da Griezmann? Non sarebbe idoneo affermarlo (Colchoneros graziati da Oblak peraltro, migliore in campo), fosse solo per riconoscenza (vecchia sconosciuta). Nonostante la sensazione forte che resta in eredità dallo scenario di San Siro è quella che – fosse entrato quel calcio di rigore – le cose si sarebbero evolute diversamente. Non c’è solo l’amaro penalty di Griezmann quanto un approccio alla gara non da Atletico Madrid: l’essenza del cholismo, la garra, elementi neanche intravisti in un primo tempo lasciato all’avversario. Che poi l’ha spuntata perché – come ampiamente dettagliato – si chiama Real Madrid. Mentre tu ti chiami Atletico ed hai da lottare per abbracciare le cose belle della vita.

IL PREDESTINATO E L’ALTRO IN B – Che l’uomo copertina di questa Champions League sia Zinedine Zidane appare del tutto pacifico: in tempi non sospetti ve lo avevamo descritto come uomo in missione, lui (c’era da aspettarselo) ha aderito in pieno ed è andato oltre. Aggiudicandosi il massimo trofeo per club dopo appena mezza stagione da allenatore: c’è poco da spiegare, sei Zidane e puoi. Ma ci ha messo dell’altro: ha moderato la verve offensiva del suo Real Madrid equilibrandolo con la presenza di Casemiro, che Perez non fosse d’accordo poco importa. Ha dato carattere: questo Real ha vinto in inferiorità numerica sul campo del Barcellona spaventando i blaugrana in Liga fino all’ultimo istante disponibile. E si è fatto voler bene dal gruppo, esausto dopo soli sei mesi dei comportamenti spigolosi di Rafa Benitez: che oggi, ironia della sorte, allena nella Championship inglese (la nostra Serie B, pochi giri di parole) dopo esser retrocesso con il Newcastle. E dopo aver iniziato la stagione al timone del club che ha poi vinto la Champions League. Premio (la panchina del Real) che, dopo la mediocre annata alla guida del Napoli, non meritava affatto. Giusto così. Intanto sono undici: sarà sempre più difficile per la concorrenza rintracciare il peso storico che oggi spetta in esclusiva al Real Madrid. Campione d’Europa per l’undicesima volta e seconda in tre anni.