2015
L’Osvaldo, la Bovisa, il calcio, la briscola
Dalla Bovisa allo Scudetto col Verona e la vittoria a Anfield col Genoa: questo e molto altro è Osvaldo Bagnoli
Un tempo forse alla Bovisa c’erano i buoi, per questo il nome Bovisa. Adesso invece no, solo casermoni e fabbriche e ferrovie a rendere il paesaggio più grigio e monotono a nord di Milano. Ogni tanto però, in quella che secoli fa era una borgata principalmente agricola, tra un gasometro e una stazione si può vedere il Mago della Bovisa. Sia che si giochi a briscola o si parli della Coppa dei Campioni il suo atteggiamento rimane sempre lo stesso, quello di chi la sa lunga ma non vuole farlo pesare, perché il Mago è umile nonostante lo sguardo a metà tra il triste e il torvo, uno sguardo che squadra in un batter d’occhio. Il Mago della Bovisa è stato prima mezzala e poi allenatore, di calcio se ne intende parecchio e di esperienze belle ne ha vissute non poche; ogni volta che si nomina un’impresa di una squadra italiana tra gli Ottanta e i Novanta, lui c’era. Il Mago lo chiamano anche l’Osvaldo, perché il suo nome è Osvaldo Bagnoli e alla Bovisa c’è nato e cresciuto, un marchio di fabbrica che si è sempre portato dietro più come un orgoglio che come un difetto. «Il calcio è come una briscola al bar con il tuo migliore amico. Quando giochi, fai di tutto per fregarlo. Quando posi le carte, bevi con lui un bicchiere» disse una volta l’Osvaldo, una frase che racchiude al meglio il pensiero di uno degli allenatori italiani più sottovalutati di sempre, partito dalla Bovisa e dall’asso di mattoni per arrivare in cima all’Italia con una provinciale e fare altre cose ancora.
IL GIOCATORE – Da giocatore Bagnoli è un centrocampista che gioca sia da mezzala che da mediano, pur essendo stato utilizzato anche come libero negli ultimi anni di carriera. Cresciuto ovviamente alla Bovisa nell’Ausonia 1931, da giovanissimo ha vinto uno Scudetto e una Coppa Latina con il Milan prima della prima esperienza al Verona, durata tre anni e priva di scossoni degni di nota. Da lì l’Osvaldo girovaga per l’Italia fermandosi a Catanzaro, Ferrara e due volte a Udine, proprio con l’Udinese arriva il momento sliding doors: nel 1968 Bagnoli si trova con la moglie in Jugoslavia quando a un tratto ha un incidente con la sua auto, lui rimane ferito al sopracciglio mentre la consorte si frattura una gamba. Decide di piantarla col calcio e tornare a Milano, anche perché ha ricevuto un incarico alla Mondadori e in quei tempi lì un’offerta del genere è irrinunciabile. Per il bene del pallone però arriva una benedetta telefonata con Enrico Muzzio, suo ex compagno di squadra all‘Udinese e alla Spal, che garantisce a Bagnoli non solo un ruolo da titolare al Verbania ma anche un posto alla Legatoria del Verbano. Una breve esperienza lì prima di passare alla Mondadori non è male, pensa Bagnoli, e accetta l’offerta del Verbania. Rimarrà cinque anni da giocatore e inizierà lì la sua esperienza da mister alternandola con quella di libero, affiancato in panchina da Franco Pedroni, uno che nel tempo libero aveva una cartoleria eppure riusciva a scovare talenti come Gianni Rivera, per dire.
GLI INIZI – La sua carriera vera e propria come tecnico nasce con un esonero alla Solbiatese in Serie C, i rapporti con il presidente non sono idilliaci e a inizio 1974 si trova senza panchina. Sarà il primo dei due esoneri in nerazzurro che sanciranno l’inizio e la fine di una prodigiosa carriera. Passa poi da Como, Rimini, Fano e Cesena e nel calcio italiano si instaura la convinzione che l’uomo della Bovisa sia davvero un mago: arriva e con i pochi mezzi a disposizione riesce a fare il possibile, come a Rimini quando nel 1977-78 in Serie B con una squadra quasi allo sbando salva i romagnoli nonostante le mille contestazioni. «Quando allenavo il Rimini, ero contestato. Fui costretto a scappare come un ladro. Per questo, se posso, esco sempre dalla porta di servizio: mi alleno per i tempi duri» dirà poi Bagnoli col suo tipico sarcasmo amaro. La gavetta continua scendendo a Fano in C2 e portandolo in C1 e poi in due anni al Manuzzi, con i bianconeri promossi in A come secondi alle spalle del Milan. Nel 1981 altro momento cruciale per il Mago, che ha modo di tornare al Verona in Serie B. Qui centra subito la promozione in Serie A avendo in rosa elementi di spessore come la punta Domenico Penzo o il regista Antonio Di Gennaro, per non parlare di giocatori che un po’ di anni dopo ritroveremo nella massima serie come allenatori: Fedele, Cavasin e Guidolin. Si tratta dell’inizio di un’epopea, il periodo più bello della storia dell’Hellas Verona. Bagnoli si rivela un ottimo allenatore ma anche un sapiente motivatore, un fine psicologo ancor prima di un accorto tattico, abile sia nel far ripartire la sua squadra in contropiede dopo una fase di strenua difesa sia nel far capire ai giocatori che possono dare sempre il meglio e sempre di più.
SCUDETTO – L’anno di grazia, manco a dirlo, è il 1984-85. In estate arriva in Italia Diego Armando Maradona mentre il Verona prende solo due stranieri del Nord Europa come Briegel e Elkjær Larsen, un tedesco e un danese. Dall’anno della promozione l’Osvaldo ha visto passare un talento come Dirceu ma poi ha appoggiato la scelta della società di venderlo per risanare le casse e adesso ha una rosa di giocatori buoni ma che da altre parti non hanno ricevuto la stessa considerazione del Bentegodi. C’è il portiere Garella, passato alla storia per le parate di piede, c’è il libero Tricella, difensore superbo ma oscurato prima da Scirea e poi da Baresi, c’è il terzino Luciano Marangon, comprovato viveur dalla propensione offensiva anche sul campo, c’è Domenico Volpati, dato per finito al suo arrivo ma rimasto sei anni a incantare Verona, c’è anche Fanna, morfologicamente e calcisticamente antesignano di Attilio Lombardo. Poi Nanu Galderisi, lo stopper Fontolan, Bruni, Di Gennaro e altri ancora: una macchina perfetta, gestita dal Mago della Bovisa con la solita saggezza. Uomini giusti nei posti giusti, poi catenaccio e pressing e infine un potenziale offensivo di tutto rispetto: ci mette poco il Verona a assestarsi alla prima posizione in Serie A. Il 12 maggio 1985, dopo due sole sconfitte in ventinove partite e una leadership salda e meritata, il Verona pareggia uno a uno a Bergamo con l’Atalanta grazie a un gol del solito Elkjaer e manda in visibilio una città intera, perché mai nella storia della A a girone unico una provinciale aveva vinto uno Scudetto. Bagnoli è sulla vetta d’Italia, lui che prima lavorava in legatoria e aveva in mente un futuro alla Mondadori. L’anno dopo solo l’arbitro francese Robert Wurtz metterà fine all’avventura europea del Verona, sconfitto 2-0 dalla Juventus a porte chiuse a Torino dopo lo 0-0 in casa. A fine partita un funzionario della polizia si avvicina a Bagnoli che, genuino come non mai, indica lo spogliatoio juventino e esclama: «Se cerca i ladri, sono di là!».
ANFIELD E POI BASTA – Quando alla fine degli Ottanta l’ombra del fallimento si allunga sul Verona e la retrocessione è inevitabile, cambia ancora la vita dell’Osvaldo, che nel 1990 lascia il Bentegodi e viene chiamato da Aldo Spinelli al Genoa. E anche a Marassi ci sarà modo di fare qualche magia. Due momenti su tutti: il quarto posto nella stagione 1990-91, il miglior risultato del Grifone dal 1945 a oggi, e soprattutto Anfield. Braglia, Torrente, Branco, Eranio, Collovati, Signorini, Ruotolo, Bortolazzi, Aguilera, Skuhravy, Onorati: qualsiasi tifoso rossoblu conosce a memoria la formazione della squadra italiana che per prima sbancò lo stadio di Liverpool, quella Fortress inespugnabile che nella Coppa UEFA 1991-92 diventa terreno di conquista di Bagnoli e dei suoi. Nei quarti infatti il Genoa batte due a zero i Reds al Ferraris ma al ritorno Souness, ex doriano tra l’altro, promette scintille. Il 18 marzo 1992 una doppietta di Pato Aguilera, con in mezzo un gol di Rush, dà il successo al Genoa, una vittoria che ancora oggi mette i brividi, un capolavoro del Mago. Lo prende poi l’Inter ma sarà un anno e mezzo non particolarmente esaltante per Bagnoli, ancora una volta prestigiatore nel traghettare i nerazzurri al secondo posto alla sua prima esperienza a San Siro, ma schiacciato da un ambiente troppo caotico e esonerato da una dirigenza poco credibile durante il 1993-94: Inter – Lazio 1-2 rimane a oggi l’ultima panchina dell’Osvaldo in carriera, un’Inter troppo brutta in campionato ma capace di vincere la Coppa UEFA col Salisburgo a fine stagione. A soli 59 anni Bagnoli decide di ritirarsi nonostante le squadre lo contattino (si vocifera che Berlusconi non lo abbia voluto al Milan perché comunista, ipotesi smentita non troppo fermamente da Bagnoli stesso) e ancora oggi si gode le magie della sua carriera da innovatore e leggenda. Un allenatore schietto, pratico, essenziale, riassumibile con una delle sue frasi più famose. Nell’esperienza all’Inter ebbe a che fare con Darko Pancev, bidone conclamato, e a tal proposito disse: «Bisogna avere pazienza con lui perché è macedone? Sarà… ma io sono della Bovisa e non sono mica un pirla».