Daniele Massaro: ci risiamo, vero Provvidenza? - Calcio News 24
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2015

Daniele Massaro: ci risiamo, vero Provvidenza?

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«Col golf è stato amore al primo swing mentre il Mondiale ’94 poteva finire diversamente. Se solo quel giorno… »

Arriva puntualissimo sul luogo dell’appuntamento (un tranquillo golf-club nella periferia sud milanese) vestito di tutto punto e con tanto di sacca con i ferri. C’è un bel sole primaverile sopra di noi e, data la giornata, il desiderio più a portata di mano sarebbe quello di farci un bel percorso a 18 buche lasciando perdere tutto il resto; ma c’è un’intervista in programma per Tempi Supplementari e quindi il dovere dribbla subito il piacere mettendolo a sedere dopo una finta. Lui, ovviamente, è Daniele Massaro, in arte “Provvidenza”, la passione come maestra di vita ed uno dei giocatori più amati di ogni tempo dal popolo rossonero. E c’è un motivo di mezzo.

Ovvero che questo monzese dallo scatto bruciante ha davvero venduto l’anima al Diavolo fin da quando Silvio Berlusconi lo acquistò dalla Fiorentina nel 1986 (scucendo circa sette miliardi di lire) e lo caricò su di un elicottero pronto a volare verso la gloria. Altri tempi. Periodi storici milanisti ampiamente galvanizzati da Beep Beep (altro suo celebre soprannome) con gol decisivi come pochi e un attaccamento alla casacca che oggi ci manca tanto. Poco male, Massaro è qui per raccontarsi e la sua sincerità ha del sorprendete in un mondo di “si sa ma non si dice”.

Lui invece si avventa su ogni argomento, compresi quelli più spinosi (il rapporto con Arrigo Sacchi, le congetture legate al Mondiale statunitense dei rimpianti ecc.) come se fosse ancora quello storico 18 maggio 1994. Lo ricordate tutti, no? Stadio Olimpico di Atene, finale di Champions League tra Milan e Barcellona, 22esimo del primo tempo: anticipo di Boban nella tre quarti blaugrana, numero di Savicevic sulla destra che avanza fino al faccia a faccia con Zubizareta, palombella del Genio e – zac! – rete di Massaro. Per non dire della penetrazione fino alla riga di fondo di Donadoni in pieno recupero (47esimo o giù di lì), passaggio rasoterra all’indietro del futuro allenatore della Nazionale e… indovinate di chi era il sinistro letale che la mise dentro per la seconda volta? Bravi, ora potete pure leggere il seguito

Dunque, partiamo dalla fine: chiudi la carriera nel 1996 dopo un ultimo anno allo Shimizu S-Pulse,  “lei” squadra della J-League e tu tra i primi italiani (assieme a Schillaci) a giocare nel torneo del Sol Levante. Perché?
«Diciamo che volevo attuare un distacco graduale tra calcio professionistico europeo e la dimensione amatoriale che si viveva allora in Giappone. Peccato che mi feci male e alla fine conclusi il torneo con “solo” 20 presenze effettive e 10 gol segnati. Avrei voluto contribuire di più per la vittoria del campionato, ma alla fine riuscimmo comunque a portare a casa la J-League Cup battendo in finale il Verdy Kawasaki

Un altro anno al Milan (dopo la finale viennese di Champions del ’95 persa contro l’Ajax) era proprio impossibile?
«Sì perché mi ero accorto, di mio, che non riuscivo più a fare la differenza. Avevo avuto degli anni strepitosi tra il ’91 ed il ’94 e non mi
andava di infangare quel ricordo. E poi c’era di mezzo la società che, comunque, mi propose di firmare per un’altra stagione. Solo che io non volevo prendere in giro né il Presidente Berlusconi né il signor Galliani

Dopo il Giappone che hai combinato?
«Mi sono preso un periodo sabbatico in Australia e dal primo maggio 1997 (data curiosa visto che quel giorno non si lavora!) sono diventato PR per il Milan occupandomi dei rapporti con gli sponsor. Quello, d’altronde, era un ruolo in cui mi trovavo a mio agio fin da quando calzavo ancora le scarpette bullonate. Diciamo che ho trasferito il mio impegno agonistico direttamente dietro una scrivania.»

E sempre in quegli anni lì scopri il brivido dei rallye…
«Beh, io sono di Monza e quindi ho sempre avuto la velocità nel sangue. Vedevo tutti questi miei colleghi col ‘macchinone’ e mi sono detto: ‘Hey, perché non guidarne una vera in pista o sulle strade sterrate?’. Così sono andato dall’Opel (a quei tempi sponsor del Milan, NdR) e mi sono fatto dare una vettura dal loro reparto-corse. Ho gareggiato come pilota principale in due rallye di Sanremo, vinto due gare del campionato italiano e guidato un po’ ovunque.»

Il golf, invece, come ti è entrato nell’anima?
«Successe durante delle vacanze in Sardegna, quando ero ancora calciatore. Avevo affittato questo bungalow all’interno del Pevero Golf Club e, visto che volevo restare in forma, andavo sempre a correre la mattina presto o la sera tardi… per evitare di beccarmi una pallina in testa! (ride) Indovina chi veniva a svegliarmi all’alba per fare un po’ di footing?»

Ehm, lui?
«Esatto, il Presidente Berlusconi alle sei di mattina in punto: non saltava mai un allenamento. Comunque –  corri di qui, corri di là – vedevo questi prati verdissimi e mi sono convinto a provarci. La coordinazione l’avevo e, beh, è stato amore definitivo al primo swing! Ero così dentro al golf, in quel periodo, che ho contagiato mezzo Milan di allora: Donadoni, Van Basten, Tassotti, Panucci, Nava ecc. Visto che mi rompevo a giocare a biliardo o al Nintendo, la sera durante il ritiro estivo portavo ferri e palline sul campo di Milanello e mi esercitavo da vero neofita. Non ti dico quanto si incazzava il giardiniere, il giorno dopo, quando vedeva qualche zolla divelta…»

Nel frattempo sei diventato un “campioncino” del green.
«Esagerato… Diciamo più che altro che ho messo su questo bel progetto del Milan Golf Tour con Marco (Van Basten, NdR) e tutti gli altri e finora abbiamo raccolto per beneficenza circa un milione di euro. Una grande soddisfazione.»

Prima del golf, ai tempi del Milan sacchiano, però avevi un altro hobby. Quest’ultimo decisamente più tosto…
«Sì, possedevo questa Beretta calibro 22 (con regolare porto d’armi) e mi piaceva andare a sparare nei boschi attorno a Milanello. Mi mettevo lì e bang, bang, bang! Solo che una volta, vigilia di Milan-Avellino del 1988, avevo il vento a sfavore e le detonazioni raggiunsero il ritiro dove il resto della squadra si stava sottoponendo ad una seduta di training psicologico voluta da Sacchi e guidata dal professor Bruno Demichelis. Appena il Mister venne a scoprirlo, la domenica mi mandò in tribuna, ma io – niente – la pistola ho continuato ad adoperarla…»

Rapporto teso e molto particolare, il tuo con Sacchi. O erano solo invenzioni giornalistiche?
«Sei pronto per una lunga storia? Allora, Arrigo Sacchi mi conosceva bene fin dai tempi della Fiorentina, quando io ero in prima squadra e lui – già preparatissimo in materia – allenava la Primavera viola. Nel 1987 concludo la mia prima stagione al Milan (portando il Diavolo in coppa UEFA grazie ad un gol decisivo in uno spareggio a Torino con la Sampdoria, NdR) e Sacchi, futuro Mister della squadra, mi convoca a Parma. Prime sue parole: ‘Senti Daniele, io penso che tu nel mio Milan non giocherai mai perché non concepisci l’idea del calcio che ho in testa’. Ed io: ‘Nessun problema, accetto la sfida e mi metto a disposizione come tutti gli altri’. Dopo un paio di mesi d’allenamenti, altro rendez-vous e mi pone l’ultimatum: ‘A centrocampo mi scombussoli la linea: o giochi di punta o te ne vai’. Ed io: ‘Benissimo Mister, domani arriverò qui due ore prima e me ne andrò un’ora dopo tutti gli altri: mi insegni lei a muovermi sul fronte d’attacco‘. Finisce la stagione ’87/’88, segno dei gol importanti ad Ascoli e a Roma, vinciamo lo scudetto ed io ero già pronto a gustarmi la Champions come alternativa a Virdis o Van Basten…»

Ed invece ti mandano alla Roma in prestito…
«Sacchi era fatto così: mi considerava una sesta punta e, visto che io non facevo mai casino, non voleva umiliarmi con troppa panchina. Alla fine, per evitare ulteriori difficoltà, accettai il trasferimento in giallorosso. E quell’anno mi è servito molto: là ho capito per bene la differenza che passava tra partecipare e vincere. Quando tornai al Milan ero pronto a spaccare il mondo tant’è che poi, a 33 anni compiuti, il mondo me lo presi davvero partecipando ad USA ’94…»

Prima del Mondiale americano per te vennero tre scudetti di fila (e quattro in totale), due Champions League (tra cui la tua doppietta siglata in finale contro il Barcellona nel ’94), due trofei Intercontinentali ed altre coppe a iosa più una stagione – quella del 1993/1994 – che se l’avessi giocata oggi forse il tuo cartellino varrebbe 50 milioni di euro. Concordi?
«Beh… (lunga pausa, NdR) Ok, non vorrei peccare di presunzione ma – visto il livello attuale dei giocatori cosiddetti ‘decisivi’ – forse quei soldi attualmente sarebbero ben spesi e ripagati. Fantasie a parte, quel campionato ’93/’94 è stata la summa della mia carriera al contrario: partito da giovane tra difesa e centrocampo, sono finito dopo i 30 anni a fare la prima punta. Non è mica una roba comune nel football…»

Qual è stato il segreto?
«Nell’ultimo periodo avevo un bravissimo osteopata/chiropatrico chiamato Terenzio Galeani che si prendeva cura della mia muscolatura. E tanta convinzione mentale da parte mia. Da giovane, tra Monza e Fiorentina, era più semplice: io pensavo solo a giocare a calcio, avevo questa passione dentro, e le cose mi sono sempre successe volta per volta. Come andare in Spagna nell’82, da “giocatore-fotografo” (famose le foto scattate da Massaro e legate a quell’impresa, tipo la ‘montagna umana’ con Claudio Gentile in cima impazzito di felicità, NdR), e tornarmene a casa con la Coppa del Mondo,appena ventunenne. Sai, il segreto non è fare le cose che ti piacciono, in quello siamo bravi tutti. No, la formula magica è un’altra: tramutare in gioia tutte le cose che fai…»

A proposito di gioia, è vero che una volta chiedesti un autografo a Cruyff?
«Sì, fu prima della finale d’Atene nel 1994. Meno male che gliel’ho chiesto prima della partita! (ride) Johan Cruyff è sempre stato il mio idolo, volevo giocare con la maglietta numero 14 quando partivo dalla panchina, da ragazzo portavo pure i capelli come lui… Quell’autografo ce l’ho ancora a casa mia e non ti dico la soddisfazione di aver giocato a pallone con la ‘next generation’ del Profeta del Gol. Vale a dire un certo Marco Van Basten… »

Senti, hai mai superato il trauma di USA ’94? Io ancora no. Eravamo tanto così dal portarci a casa la coppa FIFA…
«Io ho avuto la chance di leggere i pezzi che sarebbero usciti il giorno dopo sui giornali se la Nigeria ci avesse sconfitto agli ottavi: altro che critiche distruttive e velenose, ci avrebbero mediaticamente ammazzati… Mi consola quello: essere arrivati secondi, in mezzo a mille difficoltà ma avendo giocato il calcio più bello del Mondiale, Brasile compreso. E poi c’era la faccenda del clima.»

La lunga estate calda. Ed yankee.
«Altri c’erano abituati, gli italiani ovviamente no. A Boston, prima della partita con i nigeriani, c’erano 40 gradi col 100% di umidità nell’aria. Noi siamo usciti a fare riscaldamento in canotta e pantaloncini, loro in tuta e K-way! (ride) Baggio ci ha salvato a due minuti dalla fine con quel colpo di biliardo e tutti, ma proprio tutti, sono nuovamente saltati sul carro. Come atteggiamento etico non è giusto, ha ragione Sacchi a scriverlo nel suo libro, ma in Italia le cose vanno da sempre così. Non c’è cultura sportiva.»

Mi sveli il segreto più impenetrabile di quel Mondiale? Come stava Roberto Baggio la mattina della finale a Pasadena? Intendo durante il suo ultimo provino in hotel…
«Mmh, forse Sacchi quel giorno aveva un’altra formazione in testa, ma non dobbiamo assolutamente dare nessuna colpa a Roby se alla fine ha giocato.»

Questa onestamente non l’ho capita. O forse sì.
«Lasciamo pure tre puntini di sospensione… (sorrisino)»

Scusami, ma quest’ultima devo fartela per forza: il rigore contro Claudio Taffarel volevi tirarlo proprio in quel punto?
«Sì, volevo decisamente tirare in porta perché avevo ancora negli occhi il rigore calciato alto da Baresi. Io non ero uno specialista dagli 11 metri, ma scelsero comunque me per fare numero. Eravamo rimasti pochissimi in piedi! Ed io oviamente andai. Anche se non è stato un grandissimo penalty quello… (sospira e fissa il green)»

Chiudiamo in bellezza: come nomignolo preferivi Beep Beep o Provvidenza?
«Vai Massarooooooo! (imita perfettamente Teo Teocoli in versione Peo Pericoli, Ndr) Li amavo tutti e tre: sia quello coniato da Teo che il Beep Beep di Carlo Pellegatti ed il Provvidenza dell’ultima fase. L’unico che non ho mai gradito è stato San Daniele: io ero un calciatore con le palle, mica un prosciutto!».