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La prima del Kosovo, una storia che non può lasciarvi indifferenti

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La nazionale calcistica kosovara parteciperà per la prima volta nella storia alle qualificazioni di una rassegna internazionale: l’analisi

La storia del Kosovo è di quelle che, una volta appassionato, ti prende in ogni sua sfaccettatura: politica, territoriale, sociale, economica, sportiva. La proclamazione d’indipendenza dalla Serbia, avvenuta con esattezza il giorno 10 settembre del 2012, ancora oggi non ha sortito tutti i frutti sperati: oltre 50 Stati membri dell’Onu non ne riconoscono l’esistenza, di cui Russia (per i noti rapporti amichevoli con la Serbia) e Cina inclusi tra i Paesi appartenenti al Consiglio di Sicurezza.

NEL CALCIO SENZA ESSERCI – Il Kosovo, suo malgrado, era già risaltato agli onori della cronaca poco meno di due anni fa: 14 ottobre 2014, sfida di qualificazioni ad Euro 2016 tra Serbia ed Albania, il Paese che di fatto rivendica il possesso e l’altro – l’Albania appunto – al quale la popolazione kosovara si sente elettivamente vicino. La cronaca dei fatti è ai più nota: il drone con la bandiera della Grande Albania che sorvola lo Stadio Partizan di Belgrado, la reazione del calciatore serbo Mitrovic e quella decisamente spropositata del popolo slavo, con tanto di lancio di oggetti  di ogni genere sui malcapitati giocatori albanesi. Insomma un clima di guerriglia – al centro le rivendicazioni di Serbia ed Albania sulla regione del Kosovo – che poco aveva a che fare con temi prettamente calcistici ma che, e torniamo all’incipit, si presenta come l’immagine più credibile delle tensioni allora in atto e mai realmente assopite.

NEL CALCIO, DA PROTAGONISTI DEL PROPRIO DESTINO – Dal 2012 ad oggi un percorso di rivendicazione della propria esistenza giocoforza complesso e lastricato di ostacoli di ogni genere: la formulazione del riconoscimento (tardiva?) è arrivata dalla Uefa lo scorso 3 maggio, ratificata dalla Fifa appena nove giorni dopo. Ben tre anni ed otto mesi dopo però la dichiarazione d’indipendenza. Percorso parallelo è stato avviato e portato a termine con il Cio, che in data 9 dicembre 2014 diede l’ok a Pristina per l’accesso ai Giochi Olimpici di Rio de Janeiro in qualità di atleti kosovari. L’esplosione delle polemiche è stata tanto ovvia quanto condotta con toni feroci: la Serbia ha alzato la voce, opponendosi alla superiorità che l’istituto calcistico ha voluto arrogarsi nei confronti dell’Onu, lì dove basta il dissenso di uno dei Paesi membri del Consiglio di Sicurezza per invalidare ogni processo.

L’ASPETTO RIVOLUZIONARIO – E’ un caso che fa giurisprudenza perché, oltre alle diverse questioni finora snocciolate, ne esiste una che in ambito strettamente calcistico la fa per distacco da padrona: come gestire la diaspora? Ovvero: i calciatori kosovari che non hanno potuto scegliere di giocare per la propria nazionale (in quanto non esistente) e si sono uniti ad altre nazionali maggiori possono ora optare per la maglia del Kosovo? Un caso di enorme clamore, considerato finora il totale quanto pacifico divieto di poter giocare per due diverse nazionali maggiori. L’elenco è decisamente numeroso e conta calciatori di origini kosovare di primo rilievo: Shaqiri, i fratelli Xhaka, Behrami, Januzaj, Cana, Mavraj, Lenjani, Beciraj, Hetemaj, Ujkani. Di questi tanti sono nati in Kosovo ed altri da genitori kosovari scappati in altri Paesi europei per fuggire all’esito della guerra. Un esempio, che viene proprio da uno dei calciatori in tal senso più rappresentativi: Xherdan Shaqiri. L’attaccante – in più di un’occasione al termine della partita – ha sfoggiato con orgoglio la bandiera del suo Kosovo, chiaro segnale di legame indissolubile con la propria patria e di auspicio per una veloce risoluzione della pratica giuridica di riconoscimento. Volesse ricongiungersi anche calcisticamente al proprio Paese, dopo aver militato a lungo nella Svizzera, ne avrebbe facoltà?

LA PRIMA DEL KOSOVO – Ecco i nomi di chi ha appena scritto la storia del calcio: Samir Ujkani, 20 presenze con l’Albania, è sceso in campo da titolare nella prima storica sfida di qualificazione internazionale del Kosovo, quella del Gruppo I di qualificazione a Russia 2018 appena disputata e pareggiata con la Finlandia. Nel raggruppamento, gioco del destino, la Croazia che – in storica antitesi con la Serbia – ha presto riconosciuto lo Stato del Kosovo, così come hanno fatto Islanda, Turchia e Finlandia. Non l’Ucraina: cosa succederà quando il 9 ottobre la nazionale kosovara dovrà volare verso Kyev per disputare la sua gara di qualificazione contro un Paese che non la riconosce? Un mistero, ad oggi. Come Ujkani ecco Amir Rrahmani (già 2 presenze con la maglia dell’Albania), Alban Meha (7 presenze e 2 reti con la maglia dell’Albania), Herolind Shala (7 presenze con l’Albania, ma rimasto in panchina in Finlandia-Kosovo), Albert Bunjaku (6 presenze con la maglia della Svizzera), Milot Rashica (2 presenze con la maglia dell’Albania) ed infine quel Valon Berisha che dopo ben 20 presenze e nessun gol con la maglia della Norvegia ha siglato il primo storico centro del piccolo grande Kosovo. Leggende decisamente verificate raccontano che gli ultimi permessi dalle varie federazioni – per tutti gli altri trafile nelle nazionali minori – o dagli uffici delle varie anagrafi per il riconoscimento dell’identità siano arrivate intorno alle 19:30 del giorno della partita. Come quella per il mito e simbolo Berisha. Ad oggi sono loro, ma presto nomi ben più accreditati – ve li abbiamo ricordati prima – potrebbero cullare l’idea di scrivere la storia con il proprio Paese. Le federazioni interessate – Svizzera su tutte (Shaqiri, gli Xhaka, Behrami) tremano alla sola idea. Ma il Kosovo ora esiste ed è una storia sensazionale intorno alla quale non si può più girare.