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70 anni di Sacchi: «Così cambiai il calcio»

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Dal Fusignano al Milan, dal Parma all’Italia: la carriera di “Arrighe”

Arrigo Sacchi compie settant’anni, è il compleanno dell’ex allenatore del Milan e dell’Italia, un uomo che ha cambiato il calcio. Sacchi racconta la sua ossessione per il pallone, nata da piccolo per i Mondiali del 1954 e poi cresciuta con l’Ungheria, il Brasile e gli esordi come calciatore senza troppa fortuna. Sacchi dice inoltre di aver tifato Inter e di esser rimasto folgorato dall‘Olanda: «Era la fine dei Sessanta, dirigevo il calzaturificio di mio padre e andai in Olanda per lavoro. Mi innamorai del calcio totale dove il protagonista era la squadra». Da lì il debutto con il Fusignano con cui vinse la Seconda Categoria e fece nascere una nuova concezione di calcio: «Il calcio nasce dalla mente, Michelangelo diceva che i quadri prima si dipingono con cervello, è la stessa cosa».

IL MILAN – Sacchi narra poi degli screzi coi calciatori, soffermandosi su una grossa lite con Marco Rossi del Parma: «Su me e van Basten si è romanzato molto, una volta chiesero a Marco cosa pensasse di una sconfitta e parlò a ruota libera del suo calcio ideale, i giornali ci ricamarono e la domenica dopo lo tenni in panchina». Col Parma ha proposto schemi innovativi e ha fatto una rivoluzione, Sacchi la spiega così: «Mi piace essere protagonista e ho voluto che le mie squadre controllassero il gioco. A Parma avevo molti giovani, chiedevo velocità e movimento, pressing e fuorigioco e molta attenzione». Poi il grande salto al Milan dove incontra Berlusconi che dice a Sacchi che lo seguirà per tutto il campionato: «Quando arrivai al Milan non mi sentii arrivato, l’ossessione raddoppiò. Il primo anno Berlusconi mi difese di fronte a tutti, fu decisivo».

L’ITALIA – Sacchi dormiva pochissimo prima delle partite per via dello stress e della tensione, che nasceva dalla paura di deludere chi credeva in lui, quindi cercava di far diventare l’ansia un plusvalore. «A Tokyo vincemmo l’Intercontinentale contro il Nacional Medellin, in albergo c’era una grande festa e io convocai una riunione perché in campo non mi erano piaciute alcune cose» continua a raccontare Sacchi a La Gazzetta dello Sport, che poi parla della famosa semifinale col Real Madrid e della monetina di Alemão: «Su questa sto zitto, altrimenti mi mettono in galera. La politica non fu estranea». Dopo il Milan ecco l’Italia e una nazione che si spacca tra pro e contro Sacchi, con Baggio che peggiora le cose dandogli del matto a USA 1994: «C’era invidia dalla gente e non volevo farci caso. I rapporti con Baggio non erano tesi, lo convocai nonostante giocasse male alla Juventus».

LA FINE – Nell’autunno del 1996, lasciata la Nazionale, ecco il fallimentare ritorno al Milan e in seguito l’Atletico Madrid ma lo stress era troppo, infine nel 2001 l’ultima panchina con il Parma: «Per me si spense la luce, la gente era felice ma non sentivo nulla. Ero un fascio di nervi e dovevo dire basta». Dalla panchina Sacchi passa alla scrivania e incomincia a seguire i giovani e a dare consigli ai nuovi tecnici: «Un allenatore deve responsabilizzare i giocatori e trasmettere il suo credo. Il gioco comanda, i giocatori lo interpretano». Sacchi ha qualche rimpianto? La risposta è chiara: «Né rimpianti, né rimorsi, mai provato invidia. Ho fatto tanti errori ma chi fa sbaglia». Infine Sacchi dà consigli ai giovani calciatori: «Bisogna studiare sui libri di scuola, è importante. La cultura è la vera dote dell’uomo. Poi si va in campo e bisogna usare prima il cervello e poi i piedi».