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Italia, la dignità non consiste nel possedere onori ma nella coscienza di meritarli

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Responso apocalittico da San Siro: fallimento Italia, al Mondiale ci va la Svezia grazie alla rete di Solna. Sul banco degli imputati ci finiscono tutti, da Tavecchio e Ventura ad un’intera riflessione

Nell’immediato post di Brasile 2014 chi ora vi scrive pensò di dare forma ad una rubrica dal titolo “Italia Anno Zero“. Eravamo sostanzialmente di fronte al reset del calcio italiano: assenza di talento e programmazione, l’eliminazione dal primo turno di un Mondiale non poteva aderire al prestigio che il nome Italia si porta dietro. Se quattro anni prima in Sudafrica poteva trattarsi di caso, complice anche la finale intermedia di Euro 2012 a confondere le analisi, la conferma che invece non lo fosse arrivò puntualmente e sonoramente in Brasile. Dal fondo del pozzo si scelse di emergere con il nome forte: Antonio Conte. Alcuni problemi sono rimasti intatti, ma la via dettata aveva lasciato intendere che il peggio fosse passato. Che quantomeno si potesse ragionare in termini di “Italia Anno Uno“.

Italia sul livello della Svezia

Sempre chi vi scrive ha provato in ogni modo a raccontarvi come la contesa tra Italia e Svezia sarebbe stata decisamente più equilibrata di quanto tanti lasciassero intendere: le nazionali guidate da Ventura ed Andersson hanno avuto un cammino non particolarmente dissimile nel percorso di qualificazione, superate da due realtà più strutturate quali rispettivamente Spagna e Francia. A dirla tutta la Svezia si è messa dietro l’Olanda, non Albania ed Israele come nel caso degli azzurri. Sorteggi – quelli dei gironi – senz’altro non fortunati, ma poi chi vale davvero non li teme ed al Mondiale ci va: ad Italia e Svezia è toccato passare dagli spareggi e le contingenze del calcio internazionale – con realtà che ora se la giocano a viso aperto e che certamente non ti mostrano la riverenza dei tempi andati, anzi ti prendono anche a botte come accaduto a Solna nella gara d’andata – hanno portato ad una sfida orientativamente alla pari. Poteva passare l’Italia, poteva farlo la Svezia: i centottanta minuti lo hanno confermato in pieno, la reazione azzurra nella ripresa di San Siro è qualcosa che arriva sul filo dei nervi e non è parametro di superiorità espressa. Anzi.

Il punto è: come si è arrivati a giocarcela alla pari con la Svezia?

I due colpevoli in tal senso portano il nome del presidente della FIGC Carlo Tavecchio e del commissario tecnico Gian Piero Ventura: la presenza della Spagna nel girone eliminatorio imponeva la massima attenzione nella scelta del successore di Antonio Conte, pena la possibilità di passare dagli spareggi ed incorrere in quanto accaduto. L’Italia aveva battuto la Spagna qualche mese prima nello scenario di Euro 2016, ma poi si è consapevolmente scelto di esserle inferiore: si è ragionato accettando lo spareggio, certi poi, in un modo o nell’altro, molto all’italiana diciamocelo francamente, di farla franca. Di svignarsela. Ma la scelta così sufficiente si è rivelata poi mortifera: l’Italia, guidata dal confusionario Ventura, si è ritrovata a giocarsela alla pari con la tignosa ed organizzata Svezia di Andersson. Un cinquanta e cinquanta, un testa o croce impensabile, una situazione che di per sé si presta alla qualificazione o all’eliminazione senza che sia lecito scandalizzarsi per l’uno o l’altro esito. Questo è il pasticcio di Ventura: aver portato l’Italia al livello della Svezia. Una gestione sciagurata che si è auto-sconfessata in più di un’occasione: la coerenza al 4-2-4 quando tutti consigliavano uno switch per valorizzare i migliori talenti a disposizione, poi il clamoroso passaggio al 3-5-2 in vista degli spareggi, con la leggerezza con cui si gioca a Football Manager, la consequenziale esclusione dei calciatori più tecnici, il caos avvolgente, lo spogliatoio che non ti riconosce più la guida tecnica e caratteriale.

Autogestione Italia

Venuta meno la figura di Gian Piero Ventura, l’Italia si è sostanzialmente presentata alla trafila degli spareggi in modalità di autogestione, un po’ come accade agli studenti quando occupano il liceo di appartenenza e per qualche giorno vivono al di fuori delle regole precostituite. Scene clamorose quelle viste ieri a San Siro: calciatori che si rifiutano di entrare in campo, che si chiedono come sia possibile essere chiamati in causa in un determinato momento di gara. Sì, è il punto più basso nella storia del calcio italiano. Era accaduto sessanta anni fa di non partecipare ad un Mondiale, accade oggi per la leggerezza di una scelta presa all’italiana, e per l’inconsistenza con cui puntualmente si è manifestata. Improvvisare non è consentito: perché Tavecchio in quel posto, di conseguenza perché Ventura. Perché? Perché Ventura in una situazione così complessa, con un avversario come la Spagna. Forte come la Spagna ma battuto appena qualche mese prima. Di questo devono dar conto i vertici azzurri, ad ogni livello, da quello “dirigenziale”, non usiamo a caso le virgolette, a quello strettamente tecnico.

Tra lacrime e mancati addii

Non è la sede per raccontare gli scenari, la ricostruzione, da dove passa e con quali modalità, una portata che ci auguriamo e supponiamo rivoluzionaria. Nel modo di pensare prima ancora che di agire. Alcuni calciatori rappresentativi – vedi Buffon, Barzagli e De Rossi – hanno dato l’addio alla maglia della nazionale italiana, come logico che sia per raggiunti limiti di età. No, perché qualcuno ancora li rimpiange: nulla togliere alla grandezza di cotanti campioni, superfluo anche solo parlarne e chi ha l’intelligenza per comprendere già è andato oltre, ma la difficoltà che il calcio italiano ha nel sostituirli la dice lunga sullo stato in cui lo stesso versa ed in buona parte ci ha condotti fin qui. Chiedere alla leggera e maleducata sfrontatezza con cui la Germania si è presentata tre anni fa in Brasile e si è portata a casa la quarta Coppa del Mondo. E come continua, da campione del mondo in carica, a rinnovarsi ed alimentarsi. Gli addii di Ventura e Tavecchio sarebbero dovuti arrivare al fischio finale, in concomitanza con la certificazione del più grande fallimento del calcio italiano. Eppure, allo stato dell’arte, non ce n’è traccia. Diceva Aristotele un bel po’ di anni fa: la dignità non consiste nel possedere onori, ma nella coscienza di meritarli. Duemilaquattrocento anni fa o giù di lì, ma come vedete il concetto resta di impressionante attualità.