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Guarin sicuro sull’Inter: «Non ero lucido. Ho avuto molti problemi con l’alcool. Volevo togliermi la vita, poi…»
Guarin, ex giocatore dell’Inter, ha voluto rilasciare queste dichiarazioni su quella che è stata la sua carriera
Gianlucadimarzio.com ha pubblicato oggi una lettera scritta da Fredy Guarin nella quale l’ex Inter si racconta.
IL BUIO E POI LA LUCE – «Lì, seduto in casa. Ero da solo. Lo ero da anni ormai. Non ero lucido, avevo bevuto. L’alcol era il mio compagno di vita. Un rifugio, una maschera. Un’illusoria risposta al malessere che mi aveva portato in un abisso. Buio, asfissiante, infinito. Ma torniamo a quel giorno. Non aveva nulla di diverso da tanti altri che avevo vissuto. Un’eterna sensazione di solitudine e frustrazione. Chiamavo le persone, nessuno rispondeva. Un silenzio assordante. La mia testa era attraversata da quell’idea: il suicidio.
Qualcosa era scattato in me. “Non posso continuare. Non posso farcela”. Ho preso il telefono e ho sentito il mio agente e la mia psicologa: “Aiutatemi. Venite a prendermi. Faccio tutto ciò che sarà necessario fare”. Da quel momento è iniziata la mia seconda vita. Un percorso riabilitativo che mi ha portato a essere la persona che sono oggi. Ho bussato alle porte dell’inferno. Ho dovuto farlo per trovare la forza per rialzarmi e rinascere. In questi mesi ho capito che la vita è fatta di pace, tranquillità, felicità. Sono qui dopo essermi allenato, ho una famiglia a casa, ho recuperato il rapporto con i miei figli, apprezzo le piccole cose. Sono qui a scrivere queste parole e sono felice. Sono felice e lo so. La vita è bella».
LE PORTE DELL’INFERNO – «Vedete, penso che strade come quella dell’alcolismo hanno quattro destinazioni: l’abbandono, l’ospedale, il carcere, la morte. Io sono arrivato fino alla terza. Mi ero costruito una prigione interiore. Una prigione che mi ha portato a un passo dall’ultima via: la fine di tutto. Ho conosciuto le ombre della solitudine, della depressione e dell’alcolismo. Ho toccato lo spettro del suicidio. Un malessere durato anni.
Erano gli ultimi mesi della mia avventura all’Inter. Le cose non andavano bene. C’erano dei problemi a casa. Stavo divorziando con la mia ex moglie, avevo lasciato casa e stavo in un albergo, i miei figli erano lontani. Stavo male. Ho iniziato a bere. Un rifugio per scappare dal mio dolore. Le persone vicine a me se ne erano accorte. Zanetti, Icardi, Stankovic, Cordoba, Mancini e non solo hanno cercato di aiutarmi: “Fredy, non è questa la soluzione”. Ma ormai era un problema già troppo grande per essere gestito. Avevo perso il controllo e non me ne rendevo conto. Ho dovuto lasciare l’Italia».
SOLITUDINE – «Sono andato in Cina per provare a risolvere quella situazione, ma non ha fatto altro che peggiorare. La mia dipendenza dall’alcol è diventata sempre più forte e intensa. Bevevo, mi allenavo, giocavo. Così, in loop. Il pallone in quegli anni era il mio psicologo. Era l’unica cosa che mi costringeva a rispettare orari, appuntamenti, responsabilità. Mi sono ritrovato in un nuovo Paese. Io, da solo con il mio problema. Solo con la bottiglia. Avevo perso la mia famiglia. I miei figli erano lontani da me e la colpa era mia.
Sono tornato in Sud America. Prima di tornare in Colombia, sono passato dal Brasile. In quei mesi è scoppiato il Covid. Era venuta meno anche quell’unica cosa che ancora mi salvava: il pallone. Con la pandemia tutto il mondo si era fermato, compreso il calcio. E io ero rimasto senza niente a cui aggrapparmi, ancor più solo con me stesso. Mi era rimasto solo l’alcol».
AUTODISTRUZIONE E TENTATO SUICIDIO – «Nel 2021 sono tornato in Colombia. Con la maglia del Millionarios ho giocato le mie ultime partite. L’inizio era stato positivo, avevo smesso di bere. Dopo qualche mese, però, ho ricominciato. È stata la fine. Ho smesso col calcio. Tre anni di autodistruzione. Bevevo e basta, senza reagire. C’è stato l’episodio della mia aggressione a papà. Ma non ero io quella persona. Ero ubriaco, non ero lucido. Ora ogni volta che posso lo abbraccio e gli chiedo di perdonarmi. “Figlio mio, ti ho perdonato dal primo giorno”. È un uomo speciale.
Ho toccato l’abisso. Sono precipitato nei suoi angoli più oscuri. Ero solo nel mio malessere. Inghiottito, confuso. Ho avuto paura di non farcela. Ho pensato di suicidarmi. E per tre volte ci ho provato. Ho provato a togliermi la vita. È andata diversamente. Dio mi ha salvato, aveva un piano diverso per me. E poi è arrivato quel giorno. La chiamata al mio agente e alla mia psicologa, l’inizio di una nuova vita. Grazie a Dio».
PARA QUÉ – «Un viaggio graduale. Un viaggio lungo. Il viaggio della mia rinascita. Sono stato portato in una fondazione. La mia partita più importante. Mi svegliavo alle sei di mattina. Allenamenti e incontri con psicologi e psichiatri fino alla sera. Così per due mesi. Poi mi è stato fatto un programma da seguire. La mia salvezza. Non ho mai smesso di seguirlo. Nel tempo ho cambiato la prospettiva: dal “por qué?” a quella del “para qué”. Per anni mi chiedevo perché tutto quello dovesse succedere proprio a me. Ora la mia visione si è ribaltata. Ho compreso che ogni cosa accade per un motivo. C’è un potere superiore che ci guida. Io ho vissuto quelle esperienze per poterle mettere a disposizione delle persone, per aiutare l’essere umano. Para qué.
Ora lavoro nella fondazione con la mia psicologa. Vedete, quando si sta male è facile sbagliare strada. All’inizio sembra andare meglio, ma non ci si accorge che intanto si precipita nell’abisso. Io non ho avuto nessuno che mi aiutasse e spiegasse cosa fare. Pensavo che la felicità fosse fatta di soldi, feste, tante persone che ti circondano per la tua fama. Ecco, io voglio essere al fianco delle persone per sostenerle nei loro viaggi e nelle loro difficoltà».
FIGLI – «Ricordo quel giorno. Erano passati sei mesi dall’inizio del mio percorso riabilitativo. Ho potuto rivedere i miei figli dopo quattro anni dall’ultima volta. Quattro anni. Per molto tempo mi ero sentito in colpa nei loro confronti. Non è stato facile raccontare ciò che avevo fatto, ma era la cosa giusta. Ho parlato dei problemi con la loro mamma, della sofferenza provata, della dipendenza dall’alcol… di tutto. Mi hanno ascoltato, con il tempo mi hanno compreso e perdonato. Non tanto per le parole, ma per i miei comportamenti. Hanno capito che ero cambiato davvero. Abbiamo ricostruito un rapporto sincero e diretto. Sanno chi sono e chi sono stato. Sanno che non voglio che tocchino alcol o droga. Se vedo mio figlio con una birretta, gli ricordo sempre che suo padre è stato un alcolizzato.
Sono stati mesi in cui ho conosciuto me stesso. Mi sono dato un’altra possibilità. Perdonarmi è stato il primo passo per ricominciare e rialzarmi. Ho conosciuto il buio. Ho dovuto farlo per dare forma alla mia rinascita. Ho imparato che nella vita dobbiamo avere il coraggio di accettare i nostri problemi. Siamo anche i nostri problemi.
Oggi Fredy Guarin sta meglio. È un uomo diverso. Sono grato per questa seconda opportunità che la vita mi ha dato. Sono più orgoglioso per questa mia rinascita che per quanto ho fatto nel calcio. Ora posso dirlo: sto vincendo la mia battaglia, la partita più importante della sua esistenza».