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2016

Tantas veces me mataron

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maradona tribuna maggio 2014 ifa

Maradona allenatore: un racconto sul suo momento clou alla guida dell’Argentina

MATARONTante volte mi hanno ucciso, tante volte sono morto, tuttavia sono qui che resuscito. Hanno provato a colpirmi in molti modi, con i fatti e con le parole, volontariamente o involontariamente. Eppure sono qui davanti a tutti, io, l’unico. Mi chiamano Dio ma di dio ce n’è uno solo e mai mi permetterei mai di rubargli il posto. Mi chiamano anche con altri nomi, non tutti per forza belli o religiosi, ultimamente ci sono andati giù duro. Le mie due bambine hanno pianto, questo non posso perdonarlo mai. Mi è bastato tirare un calcio a un pallone per finire in cima all’Olimpo e adesso che non gioco più ogni ragione è buona per farmi passare da idiota. Gli stessi che mi vogliono vedere fuori dal calcio sono quelli che, appena indossavo la maglia dell’Argentina, mettevano da parte tutto pur di sbrodolare per me, di tifare per me. E adesso si uniscono al coro di ingrati, di detrattori, di avvoltoi. Mi hanno visto con la camicia e la giacca, il capello impomatato, la collana con Dio – quello vero, non io, per carità – e pensano che sia diventato un imbecille, che ero tanto bravo palla al piede quanto incompetente adesso, che la mia Argentina la guardo da questa linea laterale. Preferirei la galera piuttosto che questa area tecnica. Sempre meglio che la tribuna stampa, quei gabbiotti da dove sbucano teste che non hanno mai colpito un pallone. Coglioni.

PERÙ – Al novantatreesimo minuto di una partita che per forza andava disputata, l’Argentina sta vivendo il più grande psicodramma degli ultimi anni. Deve vincere e battere il Perù per sperare nella qualificazione diretta al Mondiale prima del big match in Uruguay. L’arbitro Ortube però segnala tre minuti di recupero e il risultato è ancora fermo sull’uno a uno. Higuain ha segnato a inizio ripresa prima della doccia gelida all’ottantanovesimo di Rengifo, che ha messo dentro il pari. L’Argentina si era coperta, il ct aveva fatto qualche cambio per mantenere il risultato e adesso non ne ha più. Sotto una pioggia incessante come non se ne vedono da anni, caracolla nell’area di rigore peruviana un attaccante biondo – pare tedesco – che con la maglia dell’albiceleste addosso non si vedeva ormai da undici anni. Profeta in patria, poco in nazionale, Martin Palermo sembra essere tornato nell’Argentina nel momento meno ideale della sua carriera, in cui a trentasei anni ancora segna a raffica col Boca Juniors. Al terzo minuto di recupero lo stadio Monumental non è quel terreno ostico come Palermo è solito almeno due volte a stagione, è casa sua. Una casa un po’ sonnolenta e piena di pioggia, ma casa sua. E l’area di rigore, quello è il suo territorio. Mancano pochi spiccioli e Martin Demichelis fa la punta e si prende un corner. Dall’angolo la palla va da destra a sinistra senza che il Perù ci capisca nulla. I biancorossi non possono perdere, già ventitré anni prima una sconfitta con l’Argentina li ha segnati per sempre, adesso si asserragliano davanti la porta per non farli segnare e mancano pochissimi secondi a un pari insperato. La pioggia scende su Insua mentre la palla capita sul suo sinistro ancora una volta. Stop, tiro smorzato, deviazione. Martin Palermo è in fuorigioco ma ovviamente non lo sa, il guardalinee non se ne avvede perché con quella pioggia è già tanto se vede la bandierina. A Palermo basta un tocco, al posto giusto nel momento giusto. La sfera gli tocca il piede e va in gol, il Monumental esplode. Victor Hugo Morales, che pure è uruguaiano, non può far altro che commentare: «Tantas vece me mataron, tantas veces me morì, sin embargo estoy aquì, resucitando».

SIN EMBARGOTante volte mi hanno ucciso. La prima volta a Barcellona, quel difensore basco che verrà ricordato solo per aver fatto fallo su di me. La seconda volta a Roma, quando hanno offeso la mia Argentina e mi hanno negato una Coppa del Mondo che spettava solamente a me. La terza volta a Napoli, mi hanno dato del drogato; hanno detto che la mia classe era solo frutto della cocaina. Illusi. Che ne sanno loro di cosa vuole dire morire e nascere almeno una volta al mese, almeno una volta alla settimana. Morire prima di una partita e resuscitare in novanta minuti, facendo vivere il calcio o la squadra. Vincendo, perché è quello che conta. Quante volte sono morto, troppo spesso. Hanno detto che ero in fin di vita perché cocainomane, eroinomane, grasso. Mi hanno dato del pazzo, hanno riso di me quando ho tirato il rigore più lento del mondo davanti a centomila persone alla bombonera. Mi hanno umiliato, dopo che io ho fatto scoprire loro le bellezze migliori che la storia di questo sport abbia mai offerto. E adesso continuano a uccidermi, ma non capiscono niente, non hanno mai capito niente. Il calcio non è come vogliono loro, non è fatto di numeri e di scienza. Non si vince studiando, si vince giocando. Si vince con le palle, con la tecnica e con l’orgoglio. All’Argentina basta questo. Mi dicono che quest’Argentina non ha gioco, non si qualificherà mai al Mondiale perché sto rovinando tutto. Un giorno si rimangeranno tutta la merda che mi hanno tirato addosso e quel giorno non li voglio sul mio carro. Ci voglio i tifosi, la gente che dà il cuore quando viene allo stadio. Non i giornalisti, non quel letamaio.

URUGUAY – Hanno provato a uccidere l’Argentina, ci sono riusciti solo in parte. A una giornata dalla fine del girone di qualificazione per Sudafrica 2010 l’Albiceleste deve giocare al Centenario di Montevideo una specie di finale. Il Venezuela e la Colombia sembrano ormai fuori dai giochi, Uruguay – Argentina è la partita che decide chi va diretto al Mondiale e chi allo spareggio. Se l’Uruguay è una sorta di habitué della bella con qualche squadra oceanica o centroamericana, l’Argentina ha già troppe pressioni su di sé per potersi permettere di passare da una Giordania o da una Costa Rica qualsiasi per accedere al Mondiale. No, non questa Argentina. Non la squadra di Messi, Higuain, Di Maria, Agüero, Tevez, Milito. Il Centenario è un catino che ribolle sangue charrúa, si vede solo qualche bandiera argentina. L’Uruguay è un cane rabbioso che addenta le caviglie argentine, persino Tabarez ogni tanto si sveste dai panni di Maestro Triste e si infuria, sa che è decisiva. All’Argentina basta un pareggio e sembra giocare proprio per mantenere lo zero a zero, contro ogni tipo di filosofia portata avanti nella vita e sul campo dal suo commissario tecnico. Al minuto ottantatré le due squadre sono stremate dall’ansia e dalla partita, ma Martin Caceres arpiona Jonas Gutierrez e concede un fallo al limite dell’area. Viene ammonito, è la seconda volta: fuori. Messi si appresta a battere una delle punizioni più pesanti della sua carriera. In area non c’è Martin Palermo ma un centrocampista ugualmente biondo e dai tratti est-europei che ha il nome tale e quale a quello di un ragioniere del Vercellese. Mario Bolatti. Messi tocca a Veron, Veron tira, il tiro è deviato e la palla arriva al biondo Bolatti. Inconsapevole che quello sarà l’apice della sua carriera, Bolatti stoppa e tocca in gol l’uno a zero con cui si chiuderà la partita. Infagottato in una giacca a vento tre volte più grande di lui, il ct argentino fa festa sulla linea laterale e per una volta può tornare in campo. Sembra un bambino, è un diavolo.

RESUCITANDOIo resuscito sempre. Ho battuto i tackle, la povertà, la droga, gli ospedali, le accuse, la morte, il doping. Battere le critiche di un manipolo di sfigati è la cosa più semplice che mi possa succedere. Non si fa in tempo a tirar fuori la pala per scavarmi la fossa che io sono qui e rido in faccia a chi mi vuol morto. Mi hanno voluto grigio ma non sanno che io sono o bianco o nero, grigio mai. Io le vittorie le dedico a tutti, non ai giornalisti. Lo faccio per chi soffre allo stadio o davanti alla televisione, per quei poveri disgraziati tormentati dalla vita che vogliono godersi un attimo di relax e di gioia almeno una volta. Che lo chiedano a loro se sono più felici a vedermi vincere così oppure giocare bene e pareggiare o perdere. Loro sì che mi amano, ma devono leggere e ascoltare questi oligarchi dell’informazione, questi teste ripiene di nulla e servi del potere. Io il potere l’ho sempre lottato e spesso l’ho anche sconfitto, quando non ci sono riuscito è perché non me l’hanno permesso. Sono stato il più grande, sono stato il Dieci, el Diez. In Argentina sui muri non trovate la faccia di Gesù Cristo, trovate la mia. E io l’Argentina a questo Mondiale ce l’ho portata contro tutti e tutti. E quelli che mi davano contro adesso non devono fiatare, non devono esultare. Devono solo attaccarsi e dovranno farlo sempre. Perché io questo Mondiale, se mi va, lo vinco pure. Parola di Diego Armando Maradona.