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Il Real, il Barça e la dittatura spagnola

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Due Champions League conquistate a coefficiente di rischio diverso

Laurearsi campioni d’Europa e non essere i più forti. Il clima che accompagna la grandiosa impresa del Real Madrid è esattamente questo. Un piccolo paradosso, o se volete un dato di fatto, dipendente da alcuni fattori. Intanto, ed è il più importante, siamo reduci da un anno come quello del 2015, nel quale chi ha alzato la coppa dalle grandi orecchie non solo meritava appieno il successo, ma in qualche maniera è sembrato rappresentare l’espressione calcistica. Quel Barcellona della finale di Berlino è apparso un meraviglioso concentrato di bellezza possibile e coerente, capace di aggiudicarsi tutto ciò che le si parava davanti. Al contempo, anche una finalista come la Juventus aveva rappresentato un segno di totale dominio in patria – a ripensarlo oggi quel campionato è apparso incredibilmente più facile rispetto al 2016 – e una coraggiosa sfida in Europa. Real e Atletico, invece, si sono presentate a Milano nella parte delle sconfitte in Liga e se proprio si cercava tra le contendenti uno di quei segni che in qualche maniera marcano “culturalmente” il periodo, certo si indirizzava lo sguardo verso il cholismo e non lo si direzionava dalle parti del vincitore Zidane, il cui avvento è troppo recente per produrre una formula capace di esprimerne le peculiarità. Chissà, magari con il tempo prevarrà la sua filosofia del sorriso, emblematicamente proposta nell’intervallo dei tempi supplementari, quando il mister madridista si è avvicinato a Cristiano Ronaldo e ha stemperato la tensione così. Che poi è il modo – la serenità – per ricordare a un grande campione le proprie sicurezze, per ribadire una fiducia che al momento del rigore è tornata utile, visto come il portoghese ha calciato perfettamente spiazzando Oblak. Al contrario Diego Simeone, che è un leader dalla faccia feroce e dalla necessità di coinvolgere sempre la propria comunità, forse non ha saputo ragionare affidando a Griezmann il rigore del possibile 1-1 (che poi è comunque arrivato), dimenticando che in campionato il francese lo aveva già sbagliato al cospetto di Keylor Navas.

DITTATURA SPAGNOLA – Il successo del Real Madrid s’inserisce certamente nella dittatura spagnola che stiamo vivendo, in forma più o meno “morbida” ed accettabile, da un bel po’ di tempo a questa parte. E forse la parte delle merengues finisce per svilirsi un minimo anche in questa egemonia complessiva, nella quale c’è anche il peso delle tre affermazioni consecutive del Siviglia in Europa League, oltre ai trionfi della nazionale giusto interrotti da Brasile 2014 e alla trasmissione del tiki taka presso altri campionati con l’emigrazione di Guardiola o l’imitazione di qualche suo stinto epigono. Qualora la Spagna di Del Bosque riuscisse ad aggiudicarsi l’Europeo in terra di Francia prossimo venturo, saremmo al culmine di questo “pensiero unico”. Tutto sommato, negli anni dei grandi trionfi della Spagna, c’era modo di consolarsi proprio in Champions League: nel 2008, 2010 e 2012 la finale non aveva visto la presenza di club della Liga e il gioco della parti era apparso più equilibrato. Ma a cogliere per intero il significato delle ultime due edizioni di coppa può essere intrigante andare a capire se nel percorso dei campioni ci siano stato momenti che poteva portarli a perdersi. Di essere cioè diversi da quello che sono stati. Un altro modo, in altre parole, per radiografare la loro grandezza.

IL CAMMINO REAL – Partiamo dal Real di quest’anno. Benitez ha comunque condotto la squadra a vivere un girone da dominatore, con lo “sconto” degli ultimi due turni da vivere in assoluto relax post-qualificazione (operazione riuscita solo a Zenit e Manchester City, fra l’altro). Con i turni a eliminazione diretta, il fattore rischio dovrebbe aumentare. Il Real lo limita con la Roma a una palla-gol sui piedi di El Shaarawy all’andata degli ottavi sullo 0-0, ma poi esplode totalmente ai quarti con il 2-0 incassato a Wolfsburg, risultato bugiardo perché i padroni di casa hanno avuto ben più di un’occasione per rendere devastante il ritorno. Dove sul 2-0 che equilibra il risultato Navas deve intervenire su Luiz Gustavo per impedire complicazioni sulla strada del sorpasso. In semifinale, il Manchester City ha meritato di non passare, soprattutto per il poco espresso in Inghilterra, a eccezione di una punizione di De Bruyne nei minuti di recupero. Ben più serio il pericolo corso al Bernabeu, quando Fernandinho ha colpito il palo alla fine del primo tempo, sfiorando per pochi centimetri la rete dell’1-1 che avrebbe complicato non poco il piano dei blancos. Nella lista degli spaventi, un posto lo merita anche il tentativo di Aguero al novantesimo, finito oltre la traversa quel tanto che basta per fermare un attimo il cuore del pubblico presente. Tutto sommato, la finale è stata più “tranquilla”. Il Real non ha mai rischiato di andare sotto, memore evidentemente di quanto successo due edizioni precedenti a Lisbona, dove riuscì a riagguantare il risultato solo in pienissima zona Cesarini. Persino il sorteggio ai rigori gli ha permesso di calciare sempre prima dei cugini e ogni piccolo vantaggio acquisito a ogni tiro ha finito per logorare i nervi dell’unico che ha sbagliato, lo sfortunato Juanfran.

IL SUPER-CLASICO – Il Barcellona fu un altro mondo? In finale il tiro di Tevez non andato a segno sull’1-1 rimane il più grande rimpianto dell’anno 2015 di Massimiliano Allegri, per esplicita ammissione del mister. Per il resto il cammino dei blaugrana è stato decisamente travolgente, senza insidie paragonabili a quelle passate dai ragazzi di Zizou. Anche se nella gara più memorabile, il 3-0 in semifinale sul Bayern di Giuardiola che al Camp Nou venne alquanto ridimensionato, non mancò il momento di uno spavento bello grande. E non, si badi bene, per effetto di una versione teutonica del possesso palla prolungato maturato in Catalunya. Fu una bella ripartenza, nel primo tempo ancorato sullo 0-0, a portare Lewandowski tutto solo a ciccare il pallone del possibile vantaggio tedesco. E chissà se sarebbe nata un’altra storia, in questa Storia dove la Spagna è signora e padrona, nell’attesa che il mondo viva – prima o poi – un Super Clasico come finale di Champions che abbia il peso di una resa dei conti definitiva.