2015
Uno spettro s’aggira per l’Europa
Il cammino in Coppa UEFA del Livorno: dalla testa di Amelia a quella di Lucarelli
Nel paese dove è nato il Partito Comunista Italiano c’è via Salvador Allende alla fine della quale si alza, poco sopra le case circostanti, il lato est dello stadio Armando Picchi. Si riconosce che è uno stadio solo perché ci sono i riflettori e per le recinzioni al di fuori dell’impianto, perché altrimenti la struttura non si discosterebbe dagli stabilimenti stile liberty della riviera tirrenica. I muri rossi alla base dello stadio sono pieni di scritte, molte sono semplicemente il nome di una squadra di calcio associato a un epiteto non troppo gentile, ma la maggior parte di esse esulano dal normale mondo del calcio e vanno a tuffarsi nella politica, un argomento che a Livorno ha una sola direzione. Allo Stadio Armando Picchi gioca l’Associazione Sportiva Livorno Calcio, nata due volte ma immortale almeno nel cuore dei tifosi che popolano la curva amaranto. Definire il Livorno semplicemente una squadra di calcio è sbagliato, perché a Livorno niente è quel che appare, o meglio, niente è solo quel che appare. Di Livorno è stato detto tutto e si può continuare a dire qualsiasi cosa ma è innegabile che, dietro quel velo di veracità quasi ignorante – in senso buono -, ogni livornese conservi uno spirito ben preciso, delineato e schierato. Terra di marinai e di ribelli, Livorno sa essere al tempo stesso rivoluzionaria e bohémienne come rivoluzionario e anche un po’ bohémienne fu quell’anno in cui le R e le L rotonde da labronico puro e il senso di sfida perenne tipico dei tirrenici invasero Belgrado, o l’Austria o Barcellona. O Auxerre.
L’INTERNAZIONALE – Quando Roberto Donadoni si dimette da allenatore del Livorno nel febbraio 2006 tutti pensano che Aldo Spinelli, presidente del club, voglia fare di tutto per non andare in Europa. Eppure la spinta europea dovrebbe essere insita all’interno della mentalità di ogni livornese, sebbene dopo quel pareggio per due a due col Messina – e il Livorno sesto in Serie A, si badi bene – siano in pochi a pensare al di là dell’addio di Donadoni. Sembra tutto finito, il sogno Coppa UEFA sfuma e l’arrivo di Carlo Mazzone peggiora le cose: il Livorno finisce nono il 2005-06 e le probabilità di esportare l’amaranto al di fuori dei patri confini cessano di esistere. C’è qualcosa che non torna però, quattro squadre di Serie A hanno passato troppo tempo al telefono per poter aver avuto la classifica che hanno ottenuto in realtà. E così succede che la Juventus viene declassata e mandata in Serie B, il Milan secondo diventa quarto, la Fiorentina e la Lazio vengono penalizzate di trenta punti e escono dalle zone europee. A fare due conti, cosa in cui Spinelli è sempre stato un maestro, viene fuori che il Livorno risulta settimo e il settimo posto manda direttamente in UEFA. Intanto a Berlino Marco Amelia, portiere degli Amaranto, alza al cielo addirittura la Coppa del Mondo, anche se non sarà l’unica soddisfazione che si toglierà in quel 2006 bellissimo. Inizia il 2006-07 e lo spettro livornese si aggira per l’Europa per la prima volta nella sua quasi centenaria storia. I soliti tifosi che al ritorno in Serie A si presentarono a San Siro muniti di bandana come il fu Premier, adesso possono affrontare la loro prima trasferta in quel di Pasching, borgo dell’Oberösterreich non lontano da Linz. Non è come un viaggio per andare al Comintern, ma può starci.
SPINTA VERSO L’EUROPA – Il Livorno il 14 settembre 2006, con Arrigoni in panchina e un Igor Protti sempre più idolatrato a far capolino dalla tribuna, alza il pugno senza tremare e grazie a Danilevicius e a Cristiano Lucarelli fa fuori il Pasching per poi replicare due settimane dopo grazie a una delle poche gioie dello spaesato Bakayoko con la maglia dei toscani. Mentre in campionato le cose vanno così e così, a metà ottobre è già tempo di fase a gruppi. L’urna dell’UEFA non è stata benevola, ma d’altronde come poteva esserlo con una squadra che è alla prima partecipazione europea. Il meccanismo della Coppa Uefa è rinnovato ma clamorosamente brutto: gruppi di cinque squadre con gare di sola andata, passano in tre e molto spesso già vincere una singola gara assicura la qualificazione al turno successivo. Al Livorno toccano Maccabi Haifa, Auxerre, Partizan Belgrado e loro, i Rangers di Glasgow, che pur non avendo mai affrontato i labronici sono uni dei più grandi nemici: il Livorno non può non essere gemellato con il Celtic Glasgow e la curva amaranto, quelle che un tempo erano le Brigate Autonome Livornesi, è in subbuglio. Livorno – Rangers è la prima partita e va subito male: alla mezzora Adam e Boyd su rigore mandano avanti Gers, Lucarelli sempre su penalty accorcia ma un minuto dopo Nacho Novo ritiene giusto uscire dall’anonimato per mettere il suo nome nel tabellino dei marcatori. Ancora Lucarelli segna per il Livorno ma al novantesimo, finisce 2-3. Il meglio evidentemente deve ancora venire, e arriverà solo poche settimane dopo al freddo di Belgrado nell’ex Jugoslavia di Tito, un nome che ricorreva spesso negli striscioni delle BAL e che ancora oggi a Livorno causa svenimenti. Perché i livornesi sono così, nostalgici. Capaci di far nascere un esempio di satira dissacrante come Il Vernacoliere o un album delicato e intenso come Per amor del Cielo.
MALGRADO BELGRADO – Belgrado, dicevamo. Fa un freddo cane anche se al Partizan sembra che gli infreddoliti siano solo i livornesi. La panchina serba si fa beffe del clima come i giocatori e c’è chi si presenta in giacca e cravatta o in maniche corte; Ibrahima Bakayoko per dire è nato a Seguela in Costa d’Avorio e lì normalmente ci sono ventisette gradi in quel periodo, ecco Bakayoko ha i guanti e la calzamaglia. Al settantesimo minuto, quando ormai a essere caldi sono solo gli animi in campo, il terzino destro Rnic pesca un jolly per Mirosavljevic che col piatto destro batte Amelia e dà il vantaggio al Partizan. Si mette male la situazione, un’altra sconfitta pregiudicherebbe di molto le chance di qualificazione ma il Livorno proprio non ce la fa a farsi vedere là davanti. Lucarelli è un’anima in pena, si sbraccia e cerca l’intesa ora con Bakayoko ora con Paulinho ma niente. Capita quindi che all’ottantacinquesimo e ventisette secondi Odita stenda Morrone sulla fascia sinistra e si prenda un giallo sacrosanto. Morrone si porta subito fuori dal campo per non perdere tempo anche se la gamba sinistra fa malissimo e lì, sdraiato sul terreno semighiacciato di Belgrado, vede con la coda dell’occhio una maglia gialla avvicinarsi all’area di rigore bianconera. I serbi fanno un cambio lasciando che la maglia gialla entri in area. Quella maglia appartiene a Marco Amelia, che di professione fa il portiere ma ha deciso di cambiare il suo destino. E che ci fa ora il portiere in area? Con ancora due minuti – un’infinità! – da giocare? Ma che è pazzo? La risposta sta tutta nel pallone delicato di Passoni, nello stacco di testa di Amelia che colpisce con la fronte e elude l’intervento del collega – omologo, quasi amico dai, un portiere che fa un tiro a un altro portiere è quasi tradimento – Kralj. Amelia segna. Il Livorno guadagna il suo primo punto in Europa grazie a una maglia gialla col numero uno sulle spalle. «Campione del mondo e goleador, la raccontiamo ai nipoti» dice il telecronista livornese di Granducato, e in effetti ha ragione. Lo spettro torna ad aggirarsi per l’Europa, e poco importa e al Picchi col Maccabi arriva un altro 1-1 firmato Lucarelli e Colautti.
DOPODOMANI SICURAMENTE – La gara decisiva si gioca il 14 dicembre 2006 all’Abbé Deschamps di Auxerre, i padroni di casa hanno due risultati su tre a disposizione mentre il Livorno deve solo vincere per raggiungere il sogno dei sedicesimi di finale. La Borgogna, patria del vino e delle salse, è il primo banco di prova per i ragazzi di Arrigoni, consapevoli di essere di fronte a uno spartiacque storico. I francesi però giocano a viso aperto e Cheyrou e Akale impegnano subito la difesa amaranto. È una serata di sofferenza e i trecento tifosi livornesi sentono la tensione stipati in curva, più vicini possibile perché anche ad Auxerre d’inverno tanto caldo non fa. Il primo tempo scorre via sullo zero a zero ma il gol non vuole arrivare, anzi sembra che siano i labronici a dover difendere il risultato. Nella ripresa bastano quindici minuti e la Provvidenza – cosa in cui a Livorno se si è veramente livornesi non si crede – assume le sembianze paciose e robuste di un ragazzo che per vestire la maglia dei toscani ha rinunciato al famoso miliardo del Torino. Cristiano Lucarelli è un livornese doc, sorriso sempre a mezza bocca e voglia di prendere in giro anche il papa. È uno di quei labronici che paiono usciti da un film di Virzì, prontissimo a fare la rivoluzione e scendere in piazza solo dopo aver bevuto il ponce. Lucarelli è l’anima della curva e della squadra e non può essere che la sua la testa che impatta il pallone su angolo di Passoni: al 60′ Auxerre zero Livorno uno. Finirà così, con l’ultima mezz’ora difesa magistralmente (grazie anche a una paratona di Amelia a tempo quasi scaduto, la sua porzione di partita preferita, evidentemente) dai ragazzi di Arrigoni, portato in trionfo proprio da Lucarelli in una scena simile a Benigni con Berlinguer.
UN CONGIUNTIVO DI TROPPO – Il resto è storia perché le gioie del 2006 non si ripeteranno nel 2007. Il Livorno arriva a giocarsi la gara di andata dei sedicesimi di finale con l’Espanyol in un clima surreale, col campionato di Serie A fermato dopo l’uccisione di Raciti in Catania – Palermo. Di quel far west che mai nessuno avrebbe associato a una partita di calcio fanno le spese tutte le italiane costrette a giocare a porte chiuse anche in Europa. E senza tifo è anche il Livorno, che dei propri sostenitori fa vanto e forza. In casa Pandiani e Moha fanno 0-2 e poi accorcia Galante, ma al Montjuic niente miracolo: due a zero Espanyol e addio Europa. L’incanto europeo svanirà subito dopo l’eliminazione quando anche Arrigoni finirà tra le grinfie di Spinelli e il Livorno chiuderà con un mesto undicesimo posto l’anno più internazionale – bella parola: internazionale – della sua storia. Allo Stadio Armando Picchi ancora oggi non ci sono solo scritte in italiano, nossignore, e se magari vi fermate a chiedere a qualche tifoso dell’annata in Europa vi risponderà forse con gli occhi ludici o forse no, perché deve pensare ad altro e perché – Ovosodo docet – non bisogna mai far niente per intaccare la propria virilità. Però non si può dire che quell’anno il Livorno non portò in alto il movimento operaio inteso nel senso calcistico del termine, perché i labronici più che una semplice squadra furono il risultato di un senso di appartenenza. Furono un gruppo di uomini veri, una causa. Karl Marx però direbbe che di tanto in tanto gli operai vincono ma è una vittoria passeggera e quindi il vero e proprio risultato delle loro lotte non è il successo immediato, ma la sempre crescente solidarietà dei lavoratori.