Marco Nappi, il pendolo di Foca - Calcio News 24
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2015

Marco Nappi, il pendolo di Foca

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«A volte, in allenamento, facevo dei numeri da circo. Ma percorrere mezzo campo col pallone sulla fronte, beh, quello non era previsto…»

«Il futuro? Guarda, te lo dirò senza troppi giri di parole: a me interessa allenare. Allenare bene in una società sana. Di fare il pensionato a 49 anni non ne ho proprio voglia…». Tira fuori la grinta offensiva dei bei tempi, Marco Nappi, rispondendo all’invito di CalcioNews24 che gli ha appena chiesto cosa combinerà da grande. E rivolge immediatamente il suo pensiero non al passato, ma al domani. Buon segno. In attesa dello squillo di cellulare giusto. Quello che ti fa ripartire in quarta, tipo i contropiedi micidiali di quel biondino tutto cuore e piedi svelti che faceva palpitare le curve di Genoa, Fiorentina, Udinese, Atalanta, Spal e tanto sacrosanto calcio di lotta (e pochissimo di governo).

E comunque l’importante nella vita è non mollare mai ed essere sempre sé stessi. «Al momento ho il patentino di seconda  categoria (significa poter allenare in Lega Pro e fare il vice in A e B, NdR) e per il quinto anno consecutivo proverò ad iscrivermi al Master di Coverciano. Fare l’allenatore in Italia è difficilissimo, non ti dà una mano nessuno, anzi spesso ti scoraggiano pure! Ma io mica mi arrendo, mica gli do retta…». No, Marco non si piega. Fissa il mare della sua Genova e piuttosto dà una chance alla fantasia, esattamente come fece con lui l’uomo che l’ha capito meglio: il grande (e mai troppo citato) Bruno Giorgi. La Foca ha messo le fauci: se potesse oggi quella sfera sintetica l’addenterebbe con desiderio. Nappi, per dirla con i Pearl Jam, è “still alive”.

L’ultima esperienza da allenatore per te è stata completamente da cancellare…
«Sì, essere stato esonerato due volte in un anno dal Comprensorio Montalto Uffugo è stato come vincere la coppa del mondo (due uomini della dirigenza della squadra calabrese sono recentemente finiti in manette nel corso dell’operazione ‘Dirty Soccer’, NdR). Ovviamente questo è il calcio che mi fa  schifo, ma a volte la passione e la voglia di allenare ti portano a fare scelte poco meditate. D’ora in avanti, però, non sarà più così: prima di accettare una nuova offerta, ci rifletterò a dovere. Non si può partire, lasciare la famiglia, andarsene a 1200 chilometri di distanza e respirare un’aria del genere…»

Allenare, comunque, ti ha fatto abbandonare in maniera soft il football giocato…
«Certo, la mia scuola-calcio di Genova (la Figenpa, NdR) mi ha subito donato grandi soddisfazioni visto che abbiamo vinto tutti i campionati regionali e fatto divertire più di 250 ragazzi. Poi a Savona, guidando gli Allievi, sono arrivato a giocarmi lo scudetto di categoria raggiungendo il più grande traguardo nella storia del club. Insomma, in panchina mi trovo a mio agio e qualcosina ho dimostrato di saperla fare…»

Merito degli insegnamenti di due tuoi maestri che non ci sono più? E sto parlando di Franco Scoglio e Bruno Giorgi…
«Col Professore ho avuto un rapporto di odio/amore, detto in senso buono per carità… A volte mi accusava di essere un po’ troppo libero nelle mie interpretazioni tattiche, di offuscargli gli schemi: io sbuffavo da giovincello ribelle ma poi, crescendo, ho capito che aveva ragione lui. Allenando mi rivedo molto nei metodi di Scoglio. Su Giorgi poco da aggiungere sulla sua grandezza umana e tecnica: mi ha fatto esordire sia in Serie A che in Europa, si è fidato di me e di uomini come lui forse hanno davvero buttato via lo stampino… (sospira)»

Ad Arezzo, nel 1987, avesti come mister Antonio Angelillo. L’angelo dalla faccia sporca, l’oriundo, il più grande bomber di sempre da quando in Italia esiste il girone unico (33 gol con l’Inter nel 1958/1959). Ti ha ispirato in qualche maniera?
«Mah, un conto è essere stato un grande calciatore – ed Angelillo in qual caso è stato enorme -, un conto saper allenare ed interagire con un gruppo di tot giocatori. E non ti dico altro… (sorride)»

Tu hai calcato i campi fino a 40 anni vestendo – dal 1982 al 2006 – ben 17 casacche diverse, se ho fatto bene i miei conti. Ti ha mai pesato tutto questo nomadismo sportivo?
«No, perché ho sempre portato gli stimoli giusti in qualsiasi posto sia andato a giocare. Sai, la maglietta di Nappi ha sempre grondato sudore al novantesimo ed è per questo che non sopporto chi non esulta quando gli capita di segnare ad una sua ex squadra. Voglio dire: per me è solo una moda condita da tanta ipocrisia. Una volta ho fatto gol al Genoa, ma non per questo mi sono privato del mio bel giro di campo con le braccia alzate… E ti sto parlando del Grifone, alias l’amore della mia vita!»

Fu a Marassi che cominciarono a girare quei simpatici soprannomi? Nippo Nappi, Foca Monaca, Zanzara…
«Zanzara sicuramente sì, visto che i genoani aveva realizzato questa maglietta con una sorta di vespa/zanzara davanti ed il numero 9 sulla schiena. I tifosi del Genoa sono sempre stati imbattibili per questo genere di cose: pensa che quando arrivai sotto la Lanterna, nel 1988, mi regalarono un braccialetto con sopra scritto… Nappi Days

Gli altri copyright, invece, a chi li cediamo?
«Beh, per la Foca e Nippo Nappi non posso che dire grazie alla Gialappa’s Band visto che quei tre mi fecero una pubblicità pazzesca in TV negli anni ’90. E poi quelli sono nomignoli che ho sempre adorato.»

Ma è vero che a Terni…
«Volevo giocare con ‘Nippo’ scritto sulla maglia? Lo confermo, ma a quei tempi la Lega non era granché d’accordo! (ride)»

Te l’hanno mai detto che assomigli in maniera incredibile a Tom Petty?
«Lui è un rocker americano, vero? Sì, una volta mi hanno fatto vedere la sua foto e direi che la zazzera bionda ci accomuna molto.»

La “Foca” nacque ufficialmente quella sera a Perugia quando ti sparasti 30 metri di campo con la palla attaccata al naso. La partita era Fiorentina-Werder Brema, semifinale di ritorno della coppa UEFA ’89/’90...
«Il pallone in realtà stava sulla fronte! (ride) In pratica arriva questo traversone tedesco nell’area viola, io volevo portare via la sfera nel più breve tempo possibile e così…»

È stata la tua Mano de Dios, quella corsa sfrenata? La folgorazione di un momento?
«Probabilmente sì visto che in allenamento ero bravo a palleggiare. A volte facevo dei numeri da circo con una monetina da cento lire giusto per divertire i compagni, ma in partita certe azioni non si programmano mai se no i mister s’incazzano… Tant’è che io mi sono reso conto del mio numero solo riguardandolo successivamente in televisione.»

E del “tacco di dio” contro l’Auxerre (stessa edizione di quella leggendaria Coppa Uefa) invece cosa ricordi?
«Che ne feci due nella stessa gara. Il primo fu difficilissimo visto che la palla mi giunse rasoterra e a quel punto era priva di velocità. Il secondo – quello che La Gazzetta dello Sport ha paragonato al tacco al volo di Suarez del Barcellona contro Boateng del Bayern Monaco – fu paradossalmente più semplice visto che il pallone, in quel caso, arrivava dall’alto mezzo deviato da un giocatore francese.»

Tu, in quella Viola che si apprestava ad entrare negli anni ’90, fosti molto amico di un certo Stefano Borgonovo…
«Sì, sia a Firenze nel ’90/’91 che successivamente a Brescia… Poi l’ho rivisto al Franchi, nel 2008, quando comunicò all’Italia intera che era malato di SLA e lì decisi che dovevo fare qualcosa. Organizzai l’anno successivo ‘Uniti contro la SLA’, un’amichevole a Marassi tra Genoa e Sampdoria che fruttò circa 225mila euro di benificenza (di cui la metà andati alla Fondazione Borgonovo, NdR). Fu una faticaccia lunga sette mesi organizzare quell’incontro; sai, quando in Italia parli di fare del bene stanno tutti sull’attenti, ma al tirar delle somme… Eppure non mi sono mai demoralizzato: quella era una iniziativa che andava fatta sia per Stefano che per tutti coloro che lottano tuttora contro la ‘stronza’.»

Tu, oltre che di Stefano, eri pure amico (anzi, amicone) di Roberto Baggio. Lo senti ancora il Divin Codino?
«No, non lo vedo da quella famosa partita del 2008 a Firenze. C’era anche Roby ad abbracciare Stefano quella sera.»

Il numero di telefono non ce l’hai?
«Purtroppo no. E poi Roberto non è facilissimo da rintracciare, a volte sparisce per dei mesi interi e nessuno sa esattamente dove sia…»

A me è sempre sembrato un campione che – dopo le stagioni felici di Firenze in coppia con te o con Borgonovo – si sia sempre di più “isolato” nelle altre squadre in cui è andato a giocare (Brescia e Bologna escluse, forse). Come se non fosse più riuscito a ritrovare l’allegria cameratesca degli esordi. Tu cosa ne pensi?
«Non lo so; credo che dipenda da tanti fattori: la maturità, lo stress, il senso di responsabilità che aumenta quando ti trovi a giocare con degli altri top-player come te ecc.»

Poche foche, insomma. Roba da chiamare il WWF…
«Già. Probabilmente negli squadroni metropolitani non trovi più il Nappi della situazione. Quello con cui puoi cazzeggiare sul pulman o fare le battutacce negli spogliatoi. Baggio è sempre stato un ragazzo d’oro nei miei confronti. E sono convinto che, in tutti questi anni, sia rimasto tale.»

Rubrica a cura di Simone Sacco – per comunicare: calciototale75@gmail.com