2012
Torino, Ogbonna: “Qui la mia dimensione. Nazionale..”
TORINO OGBONNA – Ha vissuto una splendida cavalcata in Serie B, riportando il Torino nella massima serie, ed ora Angelo Ogbonna lavora al grande salto di qualità. Intervistato da Tuttosport, il difensore granata si è raccontato: «Serie A o B, per me non c’è stata differenza. Sono molto diversi i campionati: in A c’è qualità, in B quantità. Ma io non ho avvertito una differenza nel mio modo di essere e correre dietro ai sogni. Se non la fortuna di confrontarmi con i giocatori più bravi. Anche all’Europeo il fatto che fossi lì arrivando dalla B non mi ha mai creato ansie. Grazie all’umiltà che si respira in alta quota tutto mi è venuto naturale. E nessuno dei compagni mi ha guardato come un… un…».
Un intruso, Ogbonna?
«Nessuno mi ha fatto sentire diverso. Né io invidiavo loro».
Si sentiva già da serie A. Nel nome di suo padre.
«Mio padre è di esempio. Trentanni fa lasciò Lagos per venire a studiare architettura a Venezia, si laureò, la classica vita di un emigrante che cerca all’estero lavoro, fortuna. La sua famiglia in Nigeria apparteneva a una classe sociale media. Ma voleva andare oltre. Tornò a casa a prendere mia madre, dopo la laurea, e si stabilirono a Cassino. Dove sono nato io. E anche noi figli siamo cresciuti studiando. Le mie due sorelle sono allUniversità. Io no, ma studio ancora in altro modo».
Anche leggendo libri su Obama e Mandela.
«Leggo molti libri. Possono sembrare letture impegnate. Per me non c’è niente di strano. E’ normale voler conoscere meglio dei miti».
Mentre per certa gente non è normale che un ragazzo di colore sia in Nazionale.
«Persone ignoranti. Io mi sento totalmente italiano. Tanto è vero che rifiutai la convocazione nella Nigeria. E non per opportunismo. I miei mi hanno lasciato scegliere. E io non potevo che dire Italia. Anche se fino ai 18 anni, nonostante sia nato qui e vissuto sempre qui, non potevo ottenere la cittadinanza. Un italiano senza diritti. Fregato. Solo perché non avevo quel pezzo di carta. Per via di una legge sbagliata. Che andrebbe cambiata. Lasciando almeno la libertà di scelta a chi è nato in Italia da extracomunitari».
Il secondo nome è Obinze.
«E’ nigeriano, ma non significa niente di particolare».
La Nigeria per lei, invece?
«La vita mi ha messo sul piatto davanti agli occhi tante culture. Innanzi tutto due. Quella della mia famiglia e quella italiana. E stato come avere un foglio bianco. E poi scrivere una storia più ricca, grazie a conoscenze maggiori. Come se fossi stato un americano».
Perché proprio l’America?
«Lì sono molto più avanti, anni luce. Ma non su tutto».
E poi ci è andato, in Nigeria, a toccare le origini.
«Io mi sento un uomo di mondo. Un cittadino del mondo, intendo. Invece certe persone la buttano sul patriottismo, sulla politica. E distinguono le razze, le origini. Io no. Io non posso dimenticare la Nigeria perché è come se mi staccassi da chi amo, la mia famiglia. Io rispetto tutte le culture. E cerco di capire ciò che mi fa più comodo, mi dà di più. Chi è stupido, ignorante, razzista, pensa che io sia limitato o con dei problemi perché ho la pelle nera. Il contrario. Sono un privilegiato. Perché la mia vita nasce dall’incontro di più culture. Fin da bambino. Quando hai la capacità di capire le cose in modo diverso dagli adulti, in modo più semplice, fluido».
La sua Africa.
«Due caratteristiche che mi porto dentro, figlie delle origini. Il senso del rispetto, che in Nigeria è vissuto anche in modo un po’ bigotto, acritico. E la solarità nel prendere la vita in modo disarmante. Anche nelle grandi difficoltà. Io sono l’incrocio di tutto questo. Non Angelo l’italiano, Angelo il nigeriano, l’africano o altro. Io mi sento Angelo e basta. Con tanto del mondo dentro di me. E non limiterò mai nessuno nell’esprimere il suo pensiero».
Pure a chi allo stadio canta: Non ci sono negri italiani?
«E’ una stupidaggine che non mi influenza. Rimango concentrato su ciò che devo raggiungere. I miei sogni. La mia adrenalina è così forte che non lo sentirei nemmeno un coro del genere. Non mi tocca la stupidità degli altri. Bisogna divincolarsi da tutto. Io do e chiedo rispetto. Mi isolo, piuttosto. Per difendermi».
Comunque lei non ha mai subito particolari forme di razzismo.
«E’ così. Anche per il mio modo di comportarmi. Non istigo. Anzi, forse sono fin troppo corretto. Poi naturalmente ci sono lo stesso degli ignoranti, in campo e fuori, tra i giocatori o nel pubblico, che cercano lo stesso di colpirti e farti perdere la testa con cori razzisti o certe frasi. La verità è che gli dà fastidio la tua intelligenza. Troppa intelligenza infastidisce chi è stupido e ignorante. E lancia certi cori senza neanche sapere davvero cosa urla. O solo per cercare di farti giocare peggio. Ma non sanno quale ricchezza o povertà può nascondersi in un uomo di colore. Come in un bianco. La diversità la sottolineano gli altri. Non la vivo io. Non mi influenza in nulla essere di colore. Anche con i miei comportamenti rispettosi mando questi messaggi. E un modo pure per combattere il razzismo o i pregiudizi e i luoghi comuni che si sentono su noi di colore».
Lei e Balotelli. Sembrate così diversi.
«Invece no. Certo, in molti casi lui esibisce atteggiamenti ben differenti dai miei, e che possono risultare fastidiosi a qualcuno. Di Mario dico che quello che vedi è. Credo che in alcune situazioni dovrebbe usare di più il cervello. Ogni tanto in campo o fuori lo cazzio, lo sgrido. Abbiamo un buon rapporto, gli do dei consigli su come comportarsi. Ci sono dei momenti, se fai parte di una squadra, in cui non devi pensare solo a te stesso. Ma anche a chi hai a fianco. E se lo tratto male o bene lo faccio come lo farei con chiunque altro. Basta non girare dei consigli cretini… Lui è stato fin da ragazzino sotto i riflettori. Io ho avuto più tempo per pensare. E reagire».
Il 16 contro la Danimarca potrà giocare a San Siro.
«L’ho già fatto col Toro».
Sì, ma con la Nazionale, nello stadio che è uno dei tetti sul mondo…
«Sarebbe il momento più glorioso. Grazie al Toro sono diventato un professionista e ho già realizzato dei sogni. Altri ne arriveranno. Più grandi».
Il Toro come un’isola felice?
«Sì. Sono qui da 10 anni, sono cresciuto in un ambiente sano, col Toro ho raggiunto la A, non ho mai avuto problemi di razzismo. O comunque non me ne sono mai accorto. La mia fortuna. La maggior parte delle persone vorrebbero avere ciò che ho avuto io. Nessuno mi ha mai trattato diversamente. La società mi ha fatto crescere bene. E l’accoglienza dei tifosi è sempre stata affettuosa. Il Toro e il suo mondo sono una realtà, un esempio di tifo e apertura mentale da promuovere in Italia. Sono sempre stato a mio agio, la gente non è troppo espansiva, è abbastanza riservata. A chiunque consiglierei il Toro e questo ambiente. Anche se poi io devo tutto alla mia serenità, la mia determinazione, la mia voglia di raggiungere i sogni. Con la parentesi a Crotone. Dove andai solo per lavoro e capii veramente quale fosse il mio mestiere. In questa Italia, in cui si parla tanto di razzismo contro le persone di colore. Ma da sempre c’è disagio innanzi tutto tra chi dal Nord ce l’ha coi meridionali o viceversa. Come si fa?».
Non giocherebbe più in un cortile con un bambino?
«Tutt’altro, se dei bambini me lo chiederanno. Io sono cresciuto così. Giocando a calcio in un cortile a Cassino. La scaltrezza l’ho imparata lì. I genitori devono mandare i figli per strada, nei parchi, nelle scuole calcio. A giocare allaria aperta con altri bambini. Invece li tengono alla playstation per ore. O davanti alla tv. La vita va vissuta. I genitori devono mandare i figli nelle scuole calcio, ma poi senza seguirli, lasciandoli anche liberi di essere».
Lei, Balotelli, El Shaarawy: da un altro mondo alla linfa per il calcio italiano.
«Mi auguro che possa essere così, come è stato in Francia con tanti giocatori della Nazionale che provenivano dal Nord Africa. Ma tra 10 anni ci sarà sempre qualche razzista. In Francia ce l’hanno ancora che ci sono troppi neri… Però forse qualcosa sta cambiando».
Andrebbe all’estero?
«Volentieri. Per conoscere altre culture. Il mondo inglese mi affascina. Si avvicina allo stile torinese. E lo parlo l’inglese».
Nel 2005 dopo il fallimento del Toro scelse di rimanere. Ci voleva coraggio.
«Sono sempre stato bene. Ho un contratto lungo, darò il massimo anche in questa stagione, il mio sogno è far bene nell’oggi, vivo di giorno in giorno e si vedrà. Lo faccio per me stesso e per la mia squadra. Per dare gloria alla gente. Far divertire i tifosi. Lo farei in qualsiasi altra squadra. E’ giusto così, è un lavoro. E’ il mio modo di essere un professionista serio. E non ruffiano».
Si sta divertendo, nel Toro.
«Vero. Per me il calcio è divertimento. Totale, all’inizio. Poi è diventato un lavoro. Ma la componente del divertimento deve sempre esserci, per farmi stare bene. E’ alle origini di ogni mia scelta. E lo sarà anche in futuro. Poter divertirmi inciderà tantissimo nell’indirizzare le prossime decisioni. Io devo fare un lavoro che mi diverta, se no niente. Col Toro ci stiamo divertendo. Avevo avuto tante proposte. Ma ho scelto di restare pure perché Ventura mi ha influenzato più di tutti in modo straordinario».
Quasi stregata.
«Ventura ha qualcosa di affascinante. Vedo in lui un allenatore affascinante che predica un gioco che affascina e fa divertire. Per questo sono restato. E sono felice di averlo fatto. Poi però sta a me e ai miei compagni fare il nostro dovere».