2015
Gigi Maifredi, una cosa divertente che farò per sempre
«L’anno alla Juventus lo passai come una piantina in mezzo al deserto. Ma quei giocatori mi volevano bene, Baggio in primis…»
Come un disco di Bruce Springsteen. Uno dei suoi più belli tipo ‘Born To Run’, il sottovalutato ‘Lucky Town’ o ‘The Rising’. Come dite? ‘Nebraska’? No, quello no: splendido, ma troppo cupo per il personaggio in questione. Gigi Maifredi – che il prossimo 20 aprile compie i suoi primi, fantastici 68 anni (2 soli più del Boss, in fondo) – è esattamente così: un diluvio di buonumore che esorcizza i macigni della vita. Raccontando il sogno e raccontandosi a sua volta. Lo incontro a pranzo in uno dei ristoranti più “gustosi” della sua Brescia circondato da una processione di vini alle sue spalle (la cantina del locale, evidentemente, conosce il fatto suo…) e da una semplice tartare cosparsa di verdure nel suo piatto. La spiegazione ce la fornisce direttamente lui: «Dovrei mettermi a dieta e, in certi periodi, ce la faccio anche; ma il buon cibo è uno dei piaceri supremi della vita. Così come il calcio all’attacco o il rock dei sixties: The Animals, Ten Years After, Pink Floyd… Che band, ragazzi!».
GIGI MAIFREDI – Lo avrete intuito: il desco accoglie le chiacchiere e noi, fissando l’Omone, cominciamo a parlare. A domandare, per l’esattezza. Della sua vita avventurosa, ovviamente. E del suo gioco a zona ad alta gradazione di bollicine che ubriacò l’Italia intera partendo dal bresciano e transitando per Bologna a fine anni ’80. E mai si sgasò nemmeno negli anni difficili dopo Torino e quella “strana” stagione ’90/’91 alla Juventus. Già, la Juve rivoltata come un calzino da Luca Cordero di Montezemolo (reduce dal nostro Mundial casalingo), che voleva lo scudetto al primo colpo, ma che dovette pazientare altri quattro/cinque anni prima che un certo Marcello Lippi riprendesse il “discorso interrotto” (tridente in attacco, centrocampo alto e tutti che correvano come pazzi: vi ricorda forse qualcuno?). La Vecchia Signora per Maifredi fu – sempre per citare Springsteen – una dannata ‘badland’ più che una nuova, accogliente ‘hometown’. Però se ora chiedeste al calciatore italiano più amato degli ultimi 25 anni (vive dalla parti di Vicenza e professa una spiccata sensibilità per le opere di un certo Siddhartha Gautama, conosciuto anche come Buddha) il nome del tecnico che l’ha gestito e capito meglio, vi citerebbe senz’altro il suo. E questo vorrà pur dire qualcosa, vero?
Secondo te chi l’ha inventato il termine “Calcio Champagne”?
«Mmh, credo risalga ai tempi di Bologna, all’epoca della promozione in serie A, ma ora non so dirti chi l’abbia coniato per primo. L’origine, invece, è ben nota: non è mistero che prima di allenare facessi l’agente di commercio specializzato appunto in champagne e panettoni. Pensa te: se avessi venduto vino Chateau, adesso parlerebbero di calcio Chateau…»
Ecco, mi spieghi com’è che un commerciante di champagne un bel giorno si mette in testa di rivoluzionare il calcio italiano?
«Fu un percorso frutto di un accorto ragionamento mischiato ad alcune occasioni che mi si erano presentate davanti. Oltre che di un trauma giovanile.»
Addirittura…
«Sì, da piccolo giocavo a centrocampo con la maglia numero 8: mezz’ala classica, mi piaceva inventare football. Poi entrai nelle giovanili del Brescia ed il mio primo allenatore, vedendomi grande e grosso, mi diede subito la 5 (a quei tempi Falcao non esisteva ancora!) e mi disse: ‘Ragazzo, rincorri il 9: stagli appresso anche al bagno!’. Tutto il mio calcio era confinato a quelle poche mosse distruttive: una tristezza infinita. Ma che razza di gioco era?»
E così ti innamori della zona…
«Calma, quando feci il Vice a Crotone alla fine degli anni ’70, era ancora prematura come idea. Idem a Lumezzane dove allenai nei primi anni ’80 e giocavamo su di un campo in terra battuta corto e stretto: un vero budello! Nel Leno, una compagine della zona di Brescia, provai una sorta di difesa a cinque, la stessa che usò poi Sebastiao Lazaroni nel Brasile che giocò i Mondiali di Italia ’90. Lo stesso posizionamento simmetrico lo adottai anche all’Orceana: 5 uomini in una metà campo ed altri 5 nell’altra. Sembrava una banalità, ma facemmo faville per due campionati di fila con tanto di promozione in C2 e relativa, comoda salvezza. Sai, il calcio non è roba da santoni: a volte basta solo attuare la mossa più semplice.»
Nel 1986 approdi all’Ospitaletto e comincia il rock’n’roll.
«Sì, lì fu zona pura. 4-4-2 fin dal principio solo che il presidente Corioni stava già investendo nel Bologna e a noi riservò la spending review! (ride) Pazienza, vincemmo il campionato di C2 con un gioco spettacolare e ci divertimmo come pazzi. Se dovessi fare un augurio ai giovani tecnici di oggi, vorrei che vivessero una stagione da sogno come quella che mi godetti io in quel 1986/1987. Poi possono anche vincere la Champions League, ma prima devono bissare quell’Ospitaletto.»
Dopo fu un’epifania: il trienno d’oro al Bologna (dalla B alla Coppa UEFA) e l’approdo alla corte degli Agnelli. Nel frattempo la zona furoreggiava nel nostro Paese (tu, Galeone, Zeman, Orrico ecc.), ma a vincere gli scudetti in quegli anni toccò a Bianchi, Trapattoni, Bigon, Boskov e Capello che erano tutto fuorché spregiudicati. Ok, c’era anche Arrigo Sacchi, ma lui aveva gli olandesi e faceva reparto da solo…
«Alt, qui mi tocca fare un po’ d’ordine. Di tutta la gente che hai citato a fare la zona pura eravamo solo io e Zeman che, personalmente, non ho mai conosciuto nè frequentato molto. Più Enrico Catuzzi (deceduto ancora giovane nel 2006, Ndr), il vero innovatore, poco citato dalla cronache ma il suo Bari d’inizio anni ’80 giocava che era una meraviglia. Gli altri? Si limitavano a mutuare il concetto base, senza osare l’inosabile.»
Pure Sacchi?
«Pure Sacchi. Lui a Parma giocava col povero Signorini libero, più due marcatori e la coppia Mussi-Bianchi esterni: tu la chiami zona questa cosa qua? Però Sacchi era furbo e di questo gli va dato atto: faceva una specie di ‘best of’ delle idee di tanti altri tecnici messi assiemi. Compreso me. Sacchi adorava il mio Bologna che giocava ancora in B. Solo che questo non lo dico io, ma lo scrive Ancelotti in un suo libro (verissimo: leggetevi ‘Preferisco la coppa’ di Carlo Ancelotti/Alessandro Alciato uscito per Rizzoli nel 2010, Ndr).»
E Liedholm dove lo lasciamo?
«Il Barone era fortissimo: a metà anni ’70 giocava una zona che gli fu creata ad arte dai suoi giocatori. I senatori si passavano elegantemente la palla a centrocampo e gli altri, nettamente più giovani, correvano come pazzi tra difesa ed attacco. Fu certamente una innovazione.»
Nell’estate del ’90 passasti quindi alla Juventus e, durante i Mondiali italiani, Baggio e Schillaci andavano come autotreni. Eri preoccupato di trovarteli un po’ cotti in ritiro?
«No, la mia unica preoccupazione riguardava la fretta che mi avrebbero messo tifosi, stampa e dirigenti quando – passare dal gioco ad uomo alla zona pura – è una faccenda che può portarti via anche due o tre anni di lavoro. In un mese e mezzo non sarei riuscito ad insegnarla neppure ad Einstein e conta che la zona resta tutto sommato abbastanza semplice da imparare… Avessi avuto un certo Giampiero Boniperti a filtrare tutti quei malumori, sarebbe stato indubbiamente un vantaggio. Ma lui, quell’anno, era in esilio.»
E poi c’era l’ombra di Zoff che pochi mesi prima aveva lanciato Schillaci e vinto Coppa UEFA e Coppa Italia…
«Dici? Peccato che Zoff fosse arrivato a Torino perché io, già nell’estate del 1988, rifiiutai a malincuore la panchina bianconera. Ci sarei andato volentieri, quella d’altronde era una Juve esclusivamente da ricostruire. Solo che il buon Corioni mi implorò di restare a Bologna e, come ricompensa, arrivarono due anni memorabili sotto le Due Torri.»
Quindi, se ho capito bene, il problema sotto la Mole non era con lo spogliatoio, ma con la dirigenza poco “protettiva”…
«Scherzi? I giocatori mi adoravano: Roby (Baggio, Ndr) – che resterà sempre un grande – mi telefona spesso e mi vuole bene tuttora, Di Canio ha scritto bellissime parole su di me nella sua autobiografia, idem tutti gli altri. E comunque non ero io che parlavo con la dirigenza, ma erano loro (Chiusano, Montezemolo, Governato ecc. Ndr) che dovevano venire a parlare con me. Arrogante? No, era il mio modo di gestire un team e l’ho fatto non solo alla Juve, ma ovunque sono andato.»
Qualche errore te lo attribuirai anche, no?
«Sì certo, a volte mi sono arrabbiato troppo e forse avrei dovuto limitarmi visto che la squadra è stata seconda in campionato fino a febbraio e la stessa Sampdoria di Vialli e Mancini non sembrava così irraggiungibile. Mi ricordo una incazzatura storica prima del Natale ’90: giocavamo in casa col Cagliari ultimo in classifica, avremmo potuto vincere 10-0 solo per le occasioni create in campo ed invece pareggiammo 2-2. Negli spogliatoi scatenai l’inferno: ‘Ok, se avevate già in testa il pranzo natalizio, potevate pure dirmelo prima che me ne stavo a casa’. La dirigenza non la prese benissimo visto che… stavano effettivamente organizzando la festa di Natale! (ridacchia)»
A Baggio, però, qualcuna ne perdonavi…
«Insomma… Quando nacque sua figlia Valentina eravamo in ritiro e la domenica venne a tirarmi giù dal letto alle cinque del mattino. ‘Mister, è nata la bambina: volo a Vicenza a darle un saluto e torno prima della gara. Posso?’ Si era inventato questa partenza folle con un piccolo aereo da turismo ed io, pur comprendendo perfettamente la situazione, dissi di no: e se gli fosse accaduto qualcosa? Lo misi in campo contro la Fiorentina, ma vidi subito che aveva la testa altrove. Dopo un tempo lo levai e gli dissi: ‘Ok, ora va pure dalla tua famiglia’. Roby era un ragazzo eccezionale.»
La cosa singolare di quel campionato fu che batteste il Parma dei miracoli due volte (2-1 al Tardini e ben 5-0 al Delle Alpi) e complessivamente segnaste dieci gol più di loro a fine torneo (45 contro 35). Solo che alla fine la classifica recitò Parma 38 e Juventus 37: loro in UEFA e voi a leccarvi le ferite…
«Posso aggiungerti che quell’anno prendemmo anche 25 pali e, da un certo punto in poi della stagione, non fummo più tutelati dagli arbitri. A Genova, nello scontro diretto con la Sampdoria (1-0 per i blucerchiati, Vialli su rigore al 50esimo. Ndr), ricordo un fallo in area su Schillaci che ancora urla vendetta. Secondo te uno come Boniperti avrebbe sopportato in silenzio? No, la verità è che in quella Juve ’90/’91 ero solo. Solo come una piantina in mezzo al deserto.»
Fui tu ad andartene o furono loro a…?
«Me ne andai io, ma decisi solo dopo la semifinale di ritorno di Coppa delle Coppe col Barcellona (molti tifosi juventini, nei vari forum sul web, l’hanno eletta come la più bella partita europea della Juventus anni ’90. Ndr). L’Avvocato, fino alla vigilia, fece intendere a me e alla stampa che mi voleva ancora in sella, ma dopo quella gara mi crollò il mondo addosso. Vincemmo 1-0 grazie a Baggio e per un solo gol non approdammo in finale col Manchester United: gli errori sotto porta di Schillaci e Daniele Fortunato mi vengono ancora a trovare in sogno la notte, ma quando ti gira storto non c’è tattica che tenga.»
Dopo che accadde? Perché tutta quella bulimia calcistica e quelle otto squadre (italiane ed estere) cambiate in circa 10 anni?
«Lì ho mollato e sbagliato strategia. A cominciare dal ritorno a Bologna in B: un errore madornale… (riflette) Pensa che la primavera prima mi cercò con insistenza la Sampdoria che stava per vincere il suo primo scudetto e avrei fatto la Coppa Campioni. Lo so che può sembrare un paradosso, ma Boskov era già a Genova da cinque anni e sentiva che il suo ciclo stava finendo. Paolo Mantovani mi contattò per ben tre volte, io tentennai, da Torino non fecero chiarezza e la cosa alla lunga sfumò.»
Hai un rimpianto? Uno solo?
«Sì, quello di aver dilapidato un patrimonio calcistico girando da una squadra all’altra durante gli anni ’90, ma ormai non si può più tornare indietro.»
E il dietrofront di Claudio Lotito a fine 2004?
«Eh, quella fu una vigliaccata. Alla Lazio mi stavano già aspettando tutti, qualcuno aveva già organizzato la presentazione-stampa ma all’improvviso non se ne fece più nulla. Eppure resto tuttora convinto che a Roma mi avrebbero voluto bene: da quelle parti sono sempre alla ricerca di personaggi, di gente che sappia parlar chiaro alla tifoseria.»
La domanda problematica ora sarebbe la seguente: tornerai mai ad allenare? In fondo hai solo 68 anni, Frank Sinatra ha cantato fino agli ottanta ed oltre, Giorgio Napolitano era Presidente della Repubblica fino a qualche mese fa…
«Mai dire mai…fredi! (ride) Ti svelo subito che è difficile, molto difficile. E poi dovrei trovare una società non troppo lontana da Brescia che faccia piazza pulita sul mio conto. Un team in grado di cancellare tutte le cattiverie gratuite che sono state spese su di me. Solo così potrei mettere in pratica una certa idea…»
Scusa, quale idea?
«Una tattica calcistica che mi sta intrigando da un po’. Vedi, il calcio è come l’algebra: o la capisci oppure ti sembreranno tutte formule incomprensibili. Ed io finalmente ho compreso una cosa. Talmente facile che pare l’uovo di Colombo…»
Puoi illustrarmela?
«Certo, prendi un foglio di carta che ora te la spiego…»
Si ringrazia la Bottega&Bistrot Lanzani di Brescia. Il titolo di quest’articolo è un omaggio al genio di David Foster Wallace del quale mi sono impunemente permesso di storpiare l’intestazione di un famoso saggio (che ho molto amato).