Serie A
Mircea Lucescu si racconta: «Grazie a me Georgescu ha vinto la Scarpa d’oro! Da allenatore la mia mentalità, prediligo queste cose. Il calcio di prima era delle famiglie»
Mircea Lucescu si racconta in una lunga intervista tra le colonne della Gazzetta dello Sport, tra passato da giocatore e carriera da allenatore
Mircea Lucescu, 80 anni e 36 trofei in bacheca (solo Guardiola e Ferguson hanno fatto meglio), si è raccontato a La Gazzetta dello Sport in una lunga e appassionata intervista.
IL GIOCATORE LUCESCU – «Un’ala dai cross eccezionali, grazie ai quali Georgescu ha vinto la Scarpa d’oro. Gioco dieci anni alla Dinamo Bucarest, vado in Nazionale e nel 1970 sono capitano della Romania contro il Brasile di Pelé. Mi invitano anche a giocare col Fluminense: mi avevano notato in un quadrangolare al Maracanã. Fui il miglior giocatore e per premio mi diedero un’autoradio. Poi, nel ’77, arriva il terremoto a Bucarest…».
L’INIZIO DA ALLENATORE – «Casa mia viene distrutta, devo scappare. A Hunedoara divento giocatore e allenatore. Non mi allineo al calcio di tutti: sviluppo la mia mentalità. Educazione, disciplina basata sul rispetto, istruzione. Portavo i ragazzi nei musei, a teatro, nelle fabbriche. Poi la tattica: possesso, tagli, pressing, fallo tattico. Quello che si fa oggi, io lo facevo 50 anni fa».
IL CALCIO AI TEMPI DI CEAUȘESCU – «Con la Dinamo non posso vincere il campionato, alla Steaua c’è suo figlio. In Nazionale metto subito giovani dei club di provincia, ho tutti contro. Organizziamo un’amichevole contro una selezione scelta dai giornalisti: vinciamo 3-1 e capiscono. Per l’Europeo 1984 porto la squadra in Sudamerica. A El Salvador c’era la rivoluzione e correvamo di notte. Ma poi vinciamo il girone battendo anche l’Italia campione del mondo».
L’ARRIVO IN ITALIA – «Accetto Cagliari grazie ad Anconetani. Uomo allegro, cattolico fervente, generoso. Ma voleva essere sempre protagonista: mi vendeva un giocatore al mese, poi mise alla porta anche me».
LA SCELTA DEL BRESCIA – «Mi cercavano anche Porto e Standard Liegi. Con mia moglie facciamo tre bigliettini. Ne manca uno. Lo trovo due giorni dopo sotto una scarpa: Brescia. Un segno del destino».
CORIONI – «Intuito straordinario. Lo convinco a fare la Brescia romena: arriva Hagi. Lancio Pirlo a 16 anni contro l’Ipswich, perde un pallone e pareggiamo. Poi mi tocca litigare: ma io vedevo il futuro».
L’INTER DI MORATTI – «Un vero signore, l’anima del club. Ma avevo dieci giocatori in scadenza e si sapeva già che sarebbe arrivato Lippi. Era il calcio delle grandi famiglie: oggi è tutto fondi e cordate».
IL SUPER ATTACCO – «Baggio, Djorkaeff, Recoba, Ronaldo, Zamorano… Moratti era innamorato degli attaccanti. Con Ronaldo avevo un rapporto speciale: io gli davo arance, lui birra Brahma».
AKHMETOV E LO SHAKHTAR – «Prima un grande calcio, poi una grande squadra. Non campioni, ma talenti da crescere. Arrivano Douglas Costa, Fernandinho, Teixeira. Vinciamo l’Uefa, quarti di Champions quasi ogni anno. Se non fosse arrivata la guerra, magari un giorno avremmo vinto la Champions».
DINAMO KIEV – «Prendo una squadra che aveva perso il campionato di 23 punti e lo vinco di 11. Mi chiedono chi comprare: rispondo di fare una palestra nuova e dei pullmini per il vivaio. Quelli sono gli acquisti che restano».
LA MAGLIA DI PELÉ – «Ce l’ho ancora. Sporca di terra, non l’ho mai lavata. È incorniciata in un museo».
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