2015
Roberto Boninsegna, like a rolling ball
«Riva corse verso di me e mi disse: ‘L’hai visto il saltello?’. Quale saltello? Boh, avevo appena segnato contro il Brasile ed ero come in trance…»
Domani saranno 45 anni esatti. Una vita o tre generazioni piene, fate voi. In quella tardissima primavera in cui i Beatles annunciarono ufficialmente il loro scioglimento al globo, l’Italia ancora affollava i cinema per godersi il magistrale Volonté di ‘Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto’ ed i Black Sabbath scoprivano per caso il riff di ‘Paranoid’ (manco a farlo apposta il chitarrista Tony Iommi lo creò dal nulla nel primo pomeriggio di mercoledì 17 giugno 1970, durante una pausa-pranzo), allo stadio Azteca di Città del Messico andava in scena la semifinale del Mondiale ’70 tra Italia e Germania Ovest. Come finì lo sappiamo tutti e chi sbloccò il risultato – all’ottavo minuto del primo tempo dopo un veloce triangolo con Gigi Riva – pure. D’altronde ci hanno pure fatto un film nel frattempo e scritto quei trecento libri a riguardo.
Poco cambia: c’era tutta la nostra Penisola post-’68 incollata a quel bolide dal limite di Roberto Boninsegna. E probabilmente c’è ancora da qualche parte mentre il vitalissimo bomber mantovano risponde alla chiamata di Calcionews24 dalla spiaggia di Porto San Giorgio dove si trova per trascorrere qualche giorno di vacanza. Il senso di sorpresa non alberga tra i suoi pensieri («Quest’anno siete tra i primi ad interpellarmi per parlare di quell’indimenticabile partita. Sarà che il 45ennale non fa così effetto come il cinquantennale…», scherza lui), ma l’orgoglio, beh, quello sì. E con il suo, giustamente anche il nostro. Perché la soddisfazione di stare parlando con uno dei migliori attaccanti che il nostro calcio abbia mai prodotto (per qualcuno addirittura il migliore in assoluto) è pari soltanto alla consapevolezza che Bonimba è ancora qui e lotta e sgomita assieme a noi. Con le sue parole oneste e le sue opinioni forti al posto dei colpi di testa e della “garra” mai doma. Furia era e furia è rimasto. A lui il pallino del gioco. Se lo merita eccome.
Roberto, domani è il 17 giugno: auguri!
«Eh sì, una data che sta diventando importante quasi quanto quella del mio compleanno che invece cade il 13 novembre. E, tutto sommato, credo che sia pure giusto così: la ricorrenza di una semifinale mondiale vinta in quel modo contro i tedeschi non potrà mai essere un giorno come un altro.»
Per i veri amanti del calcio Italia-Germania Ovest del ’70 resterà per sempre “el partido del siglo”. La gara del secolo…
«Già, ma se consideriamo i novanta minuti – quelli del mio gol e del pareggio in extremis di Schnellinger – io non starei tanto a gridare al miracolo. Furono i supplementari a tramutarla in una sfida palpitante tra due squadre che non volevano cedere al rispettivo avversario. La bellezza del football sta tutta in quei 30 minuti di fuego: in quel 2-1 per loro che poi diventò 2-2, 3-2 per noi, 3-3 ed infine 4-3 col suggello di Rivera su mio assist dalla fascia sinistra.»
Tu sei invecchiato benissimo e hai superato quel gol epocale vincendo un po’ di tutto e combinando mille altre cose, anche in ambito extra-calcistico. Solo che noi giornalisti veniamo sempre a chiederti di quell’afoso pomeriggio all’Azteca e di quel missile da fuori area: è pesante sopportare il peso della Storia?
«Più che altro è piacevole, molto piacevole. E se devo guardare la mia carriera nel suo complesso diciamo che mi è mancata soltanto una panchina di serie A. Nel 1994 ho conseguito il Master di Coverciano, pensavo di poter dire la mia nel calcio che conta solo che in tutto questo tempo non si è mai mossa una foglia. Che vuoi che ti dica? Forse dipende anche da me che non mi sono mai arruffianato nessuno facendomi sponsorizzare da un procuratore…»
A proposito: il mese scorso si era parlato di un tuo possibile coinvolgimento societario nel Robur Siena, la società dilettantisca nata dopo il fallimento nel 2014 dell’A.C. Siena. Ci sono stati degli sviluppi?
«Non ancora, ma penso che lo stand-by dovrebbe risolversi nel giro di un paio di settimane: a quel punto saprete tutti quanti. Se mi siederò nuovamente in panchina? No, da quel punto di vista ho già dato collaborando con le varie Nazionali di serie C nel corso degli anni ’90. E con la mia breve esperienza nel Mantova.(conclusasi nel 2003, NdR)»
Torniamo all’epopea messicana. Cosa vi siete detti tu e Riva dopo il gol del momentaneo pareggio nella finale col Brasile del 21 giugno 1970?
«Gigi si è avvicinato a me e mi ha sussurrato: ‘Hey, l’hai visto il mio saltello?’. Ed io: ‘Certo, certo…’. Solo che ero così frastornato da aver fatto gol contro Pelé e soci che non mi ero neppure accorto di quel suo escamotage atletico. In pratica avevo rubato palla ad un brasiliano a metà campo, scartato Piazza, saltato Brito ed evitato il portiere Fèlix in uscita… Ero come in preda ad un raptus! (ride) Però ammetto che senza il saltello provvidenziale di Riva – che c’è stato, eccome se c’è stato! – non so dove sarebbe finito il mio tiro. Quindi, anche a distanza di così tanti anni, grazie Gigi!»
In quella partita uscisti a sei minuti dalla fine per fare entrare Rivera in quelli che verranno ricordati come i 360 secondi più inutili di tutto il football…
«Ti dirò di più: una volta giunto in panchina scagliai le scarpe contro Ferruccio Valcareggi. Si è fatto un gran parlare del ‘vaffa’ in mondovisione di Chinaglia ai Mondiali successivi di Germania, ma pure in terra messicana Valcareggi ebbe le sue belle contestazioni da affrontare. In quel caso sotto forma del mio paio di Adidas…»
Il motivo di tanto astio? Tanto eravamo sul 3-1 per i verdeoro con la coppa già diretta verso Rio De Janeiro…
«Appunto! Sei sul 3-1 per loro, devi recuperare con ogni mezzo e tu cosa fai? Levi una punta?! Scusa, sposta finalmente Mazzola all’ala, butta dentro Rivera e giocatela fino alla fine con un tridente formato da me, Riva ed il Golden Boy. Tanto non hai più nulla da perdere…»
Ed invece 4-1 per il Brasile con staffilata di Carlos Alberto appena due minuti dopo il fatidico cambio: fine della sofferenza.
«Vuoi sapere la verità? Gianni (Rivera, NdR) non meritava un affronto simile. Intendo: entrare così in ritardo ed assistere dal campo al quarto gol della Selecao. Non lui che vinse il Pallone d’Oro l’anno prima e ci portò in finale con la sua rete decisiva alla Germania Ovest. Ma con Valcareggi funzionava così e la bestemmia tattica, quel giorno, andò in scena.»
Tu come ti saresti comportato al posto del C.T.?
«Avrei fatto giocare a Rivera almeno un tempo ricorrendo a quella – scusami il termine – cagata della staffetta. Voglio dire: avevamo in squadra le due migliori mezzali del dopoguerra – più punta Mazzola e più regista Rivera – e dovevamo per forza tenerne fuori una? E perdipiù contro un Brasile che schierava contemporaneamnte Jairzinho, Tostão, Pelé e Rivelino?! Dai! (sbuffa) Certo che noi italiani siamo sempre stati maestri nel complicarci la vita…»
A distanza di 45 anni ne parli ancora come se fosse successo ieri…
«Certe cose non si dimenticano mai. Certe stranezze del destino, intendo. La cosa che non ho mai capito di Valcareggi è perché decise di puntare su di me facendomi giocare tutte e sei le partite del Mondiale. Perché ero bravo, dici tu? Ok, ma in primis convocò Anastasi lasciandomi mestamente a casa. Poi Petruzzu incappò nella celebre vendetta di Montezuma e solo allora arrivai io diventando titolare inamovibile. Paradossale, no?»
Di paradosso in paradosso, va aggiunto che tu fosti anche l’unico “messicano” a non aver riscosso credito a Germania ’74…
«Sì, con Haiti me ne andai in tribuna quando Chinaglia fece quel gestaccio di fronte a tutti. In tribuna, sottolineo, dopo aver segnato 23 reti in campionato. Con l’Argentina mi sedetti in panchina senza alzarmi mai e con la Polonia, all’ultima partita, entrai al 46′ quando eravamo sotto 2-0 e praticamente eliminati. Boh, la mia ultima soddisfazione con la maglia azzurra me la levai segnando contro la Grande Olanda di Cruyff nel novembre successivo, ma lì Valcareggi non c’era già più ed il tandem Bernardini-Bearzot incominciò a valorizzare parecchi giovani. Fine del mio rapporto con la Nazionale (Bonisegna lasciò con una media altissima: solo 22 presenze per 9 gol in totale, NdR)»
Chiudendo il discorso sull’esperienza di Messico ’70, credo che la finale col Brasile andrebbe rivista per intero anche al giorno d’oggi. Per scoprire magari che non fu una sfida così impari come si scrisse allora. E comunque quel magico Brazil passò agli annali come la nazionale verdeoro più forte di sempre…
«Non fu impari per una serie di motivi. Come prima cosa va detto che crollammo solo negli ultimi venti minuti dopo aver regalato ai brasiliani l’assenza di Rivera ed aver consumato fin troppa benzina nei tremendi supplementari con la Germania Ovest. E poi le occasioni da gol: almeno 2 o 3 per noi nel primo tempo ed un’ultima con gran tiro di Domenghini al 60′ che fruttò solo un calcio d’angolo. Se fosse entrata quella legnata di Domingo chissà se Gèrson avrebbe segnato al 66’…»
Sono discorsi che purtroppo non si possono fare. Sarebbe come chiedersi quanto varrebbe Bonimba al giorno d’oggi che, se appena segni 10 gol, già passi come un top-player affermato…
«Onestamente non so quanto varrebbe il mio cartellino nel 2015 però lasciami dire che, nel momento migliore della mia carriera, mi muovevo su una media di 22/24 segnature l’anno con 8 partite in meno ed i difensori che giocavano ferocemente ad uomo. Dopo i mondiali messicani vinsi due volte di fila la classifica cannonieri e nel ’73/’74 mi levarono un gol validissimo che mi avrebbe appaiato alle 24 reti segnate da Giorgio Chinaglia. Reti che, en passant, lo consacrarono re dei bomber. Andai pure alla Domenica Sportiva a contestare quella decisione, ma non servì a granché.»
Si trattava di un calcio di punizione contro il Cesena, giusto?
«Esattamente. La Lega sosteneva che quel tiro fosse stato deviato dalla barriera cesenate mentre se guardi con attenzione le immagini fu un colpo secco diretto in rete. Se un difensore bianconero o la traversa si fosse messa di mezzo, quel pallone non sarebbe mai entrato… Pazienza? Pazienza un corno! Quel verdetto mi fa ancora male come una coltellata.»
Lo sai cosa mi piace di te? Che tu ti concentri sulle tue imprese sportive mentre il tuo mito è già andato oltre. Anche a livello sociale, cinematografico o letterario, voglio dire.
«Beh, anni fa lessi un libro di Stefano Tomasoni intitolato ‘La Coca-Cola di Boninsegna’ (sul famoso episodio della lattina avvenuto nel corso di Borussia Mönchengladbach-Inter valida per la Coppa dei Campioni ’71/’72, NdR) e devo dire che mi piacque moltissimo. Poi so che di recente Mario Sconcerti mi ha citato nel suo ‘Storia del Gol’ inserendomi nella cosiddetta golden-age degli attaccanti italiani.»
Sconcerti ti ha anche definito una sorta di “rolling ball”. Una palla rotolante che tutto travolgeva con la sua potenza elastica…
«Ok, rotolavo verso la rete avversaria, ma prendevo anche di quelle mazzate! (ride) Se mi piace come descrizione? Beh, Sconcerti ha sempre avuto una certa ammirazione nei miei confronti. Come Gianni Brera, d’altronde, nonostante quel famoso soprannome…»
Bonimba?
«Sì, la crasi tra Boninsegna e il nano Bagonghi. Mai capito chi fosse quel nano e perché Brera mi vedesse basso visto che la mia altezza è sempre stata attorno al metro e 75. Solo che lui la menava sempre dicendomi che correvo in modo incassato, che i giganti sono ben altri… Boh, idee sue. Resta la soddisfazione di stare dentro un ristretto club che racchiude anche l’Abatino, Rombo di Tuono, Puliciclone, Mazzandro ecc.»
Tu hai giocato e vinto soprattutto con la Juventus (2 scudetti consecutivi, una Coppa UEFA ed una Coppa Italia) però il tuo amore per l’Inter resta encomiabile. Un po’ meno quello della Benemata nei tuoi confronti…
«Con la dirigenza Thohir, però, sono tornati a farmi entrare gratis allo stadio: io li chiamo e loro mi lasciano il biglietto in cassa… Una magra consolazione visto che ormai veniamo da due anni da dimenticare. Di entusiasmante in questo 2015 ho visto solo il pubblico nerazzurro, sempre attaccato ai suoi giocatori, e poi basta. Quando a gennaio sono arrivati Shaqiri e Podolski le dimostrazioni d’affetto nei loro confronti sono state encomiabili nonostate quei due, col passare dei mesi, si siano un po’ persi.»
Ma è vero che Moratti nel 2010 non ti portò a Madrid per assistere alla vittoria del Triplete?
«Scelsi di non andarci io dopo che mi fu comunicato che avrei viaggiato sull’aereo dei dirigenti e non su quello della squadra. Il motivo? Su quel volo potevano salire solo i vincitori delle due Coppe Campioni conquistate con Helenio Herrera. Io che nel 1972 arrivai in finale con l’Ajax di Cruyff (ed ovviamente persi) non ero minimamente ammesso. Così quella sera ho tifato Inter a casa mia, in mezzo alla mia bella famiglia.»
Fiducioso nel secondo anno del Mancini-bis?
«Mmh, stiamo parlando di un allenatore importante, di un nome che fa presa sul grande pubblico interista anche se io il 3-5-2 di Walter Mazzarri non l’ho mai gettato nel rogo. Neanche Mancini, a dire la verità, visto che qualche volta ha pure provato a giocare a 3 nonostante avesse difensori propensi alla zona. Ecco, se siamo attualmente così distanti da Juventus e Roma, il problema è esclusivamente di rosa e lì – nella scelta di certi atleti – qualcuno deve aver sbagliato per forza…»
Mi resta giusto il tempo di farti due domande conclusive: l’hai mai più rivisto lo stadio Azteca da quella gloriosa estate del 1970?
«Ci sono stato con la Nazionale di serie C negli anni ’90. Avevamo un giorno libero a disposizione e allora ho portato i miei ragazzi in pellegrinaggio in quel tempio del calcio. Ho visto il campo, le tribune, la famosa targa dedicata al ‘partido del siglo’, ma gli spogliatoi no: troppi ricordi, lì non sono sceso.»
E, mettendo in ordine nei tuoi cassetti, la preziosa casacca dei Chicago Mustangs ce l’hai ancora?
«Certo che ce l’ho e ci tengo pure a quel cimelio! (ride) La storia andò così: nell’estate del 1967 il Cagliari ci prestò in blocco (tranne Riva che era infortunato) alla Lega Nordamericana che ci schierò in campionato con la denominazione di Chicago Mustangs. Noi andammo là convinti di giocare qualche amichevole in maglia rossoblù ed invece disputammo un mini-campionato di tot partite ufficiali con tanto di maglie ‘straniere’…»
Bonimba The Rolling Ball, ovviamente, lasciò il segno anche a casa dello zio Sam…
«Sì, se non ricordo male segnai qualcosa come 11 gol in 12 incontri. Così, giusto per non perdere il vizio! (risate)»
Appuntamento alla prossima settimana per l’ultima “puntata” (la trentesima) di Tempi Supplementari prima della pausa estiva. Se questo articolo vi ha fatto tornare la voglia di rivedervi Italia-Germania Ovest ed Italia-Brasile del ’70 cliccate pure qui (per la sfida con i tedeschi) e qui (per la partita contro i “canarini”). Buona visione.
Rubrica a cura di Simone Sacco – per comunicare: calciototale75@gmail.com