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Fiorentina sei ancora viva? La crisi ha un volto e un nome: l’analisi dettagliata del momento horror dei Viola, ultimi in classifica dopo undici giornate
Fiorentina l’analisi dettagliata del momento horror della squadra Viola, rilegata in ultima posizione con lo spettro della Serie B sempre più vicino
La stagione della Fiorentina, dopo undici giornate di campionato, è la fotografia più limpida e crudele di un progetto arrivato al capolinea. Una squadra ferma, senza vittorie, con appena cinque punti, che ha perso la propria identità e la fiducia di un ambiente ormai disilluso.
Eppure, nelle pieghe di questi primi mesi, ci sono dinamiche precise, errori che si ripetono con ostinazione e segnali, seppur minimi, di possibile ripartenza. Dalla gestione Pioli al debutto di Vanoli, il filo conduttore resta uno: la Fiorentina non è più padrona del proprio destino in campo.
Un avvio già pieno di crepe
La storia di questa stagione comincia a Cagliari, con un pareggio (1-1) arrivato all’ultimo respiro. Mandragora illude, ma Luperto punisce al 94’. Già lì, la sensazione era quella di una squadra incapace di chiudere le partite, di difendere i momenti decisivi.
La trasferta di Torino (0-0) ha poi mostrato l’altra faccia del problema: una Fiorentina ordinata, ma piatta, senza mordente offensivo, con un possesso palla fine a se stesso.
E quando il livello dell’avversario si è alzato, come contro il Napoli (1-3), la differenza tecnica e mentale è sembrata abissale. La squadra di Pioli ha provato a tenere palla, ma ha subito transizioni continue, faticando a leggere gli spazi e a reggere il ritmo.
Il tonfo interno contro il Como (1-2) ha poi rappresentato il punto di non ritorno. Avanti dopo pochi minuti, i viola si sono sciolti nella ripresa, subendo due gol fotocopia e mettendo in mostra tutte le proprie fragilità: mancanza di concentrazione, di leadership e di cattiveria.
Un pari sterile a Pisa (0-0) ha prolungato l’agonia, poi la sconfitta contro la Roma (1-2) ha certificato il tracollo: vantaggio iniziale, rimonta avversaria in sedici minuti, zero reazione.
Nemmeno la serata di San Siro con il Milan (2-1) ha invertito la rotta: un buon primo tempo, un vantaggio illusorio, poi il solito calo mentale e la solita incapacità di gestire la pressione.
A Bologna (2-2) si è vista la prima vera reazione di nervi, con due rigori nel finale che hanno evitato la disfatta, ma la sensazione è rimasta quella di una squadra che vive di episodi, non di gioco.
Poi il crollo contro l’Inter (3-0), l’ennesima sconfitta netta e senza appello, e il tonfo casalingo col Lecce (0-1), partita simbolo di tutto ciò che non funziona: tanto possesso, zero idee, nessuna intensità.
Un progetto tattico arrivato al limite
Il filo che unisce tutte queste gare è il medesimo: la Fiorentina è una squadra che palleggia tanto e conclude poco, che domina la quantità ma non la qualità.
Nei numeri c’è la conferma: possesso medio intorno al 55%, ma meno di un tiro “pulito” ogni cinque tentativi. La manovra è lenta, laterale, prevedibile. L’area di rigore resta deserta, con gli esterni troppo larghi e le mezzali sempre in ritardo negli inserimenti.
È il possesso “vuoto”, quello che non serve a creare superiorità ma solo a illudersi di controllare il gioco. Pioli ha insistito su un’idea scolastica, più estetica che funzionale, e la squadra si è spenta nella routine.
Dietro, i problemi non sono minori. I dati parlano chiaro: più del 60% dei gol subiti arrivano negli ultimi venti minuti. È un crollo di concentrazione e condizione, ma soprattutto di struttura mentale. Ogni vantaggio diventa un incubo, ogni palla persa una condanna.
Il blocco difensivo si abbassa troppo, le preventive non esistono, e le seconde palle diventano terreno fertile per gli avversari. Una squadra che non sa attaccare né difendere: troppo timida per dominare, troppo fragile per resistere.
Il cambio inevitabile e la prima Fiorentina di Vanoli
Dopo dieci partite senza vittorie, il cambio in panchina è stato inevitabile. Pioli paga un ciclo esaurito e una squadra che non risponde più. Al suo posto arriva Paolo Vanoli, chiamato a rianimare un gruppo senza autostima.
La sua prima “vera” Fiorentina si è vista a Genova, contro il Grifone. Il 2-2 finale non è ancora un punto di svolta, ma è almeno un segnale.
Vanoli ha riscritto la lavagna: difesa a tre, 3-5-2 più verticale e meno prevedibile. Non più il possesso lento e sterile, ma l’idea di cercare subito le punte, di accorciare il campo e di rendere più diretta la manovra.
E i numeri del Ferraris raccontano un passo avanti, anche se piccolo. Sei tiri totali, tre “puliti” dentro l’area, due gol arrivati da manovre centrali: uno su rigore di Gudmundsson, l’altro di Piccoli su azione.
Il dato più interessante è proprio quello: la Fiorentina torna a finalizzare con gli attaccanti, cosa che nel ciclo Pioli era diventata un’eccezione.
Dietro, la coppia Pablo Marí–Pongračić regge, De Gea risponde presente nelle tre parate “chiave”, e la squadra, almeno nel primo tempo, mantiene le distanze compatte.
Ma anche qui, la malattia è riemersa. Dopo il gol del 2-1, bastano tre minuti per subire il pari. È sempre la stessa storia: la Fiorentina non sa “sporcare” la partita, non sa gestire l’inerzia, non sa proteggere se stessa quando le cose girano.
È un limite mentale, prima ancora che tattico. E Vanoli lo sa: nelle sue parole post partita ha insistito proprio sulla necessità di “imparare a soffrire insieme”.
Cosa resta e cosa manca
Dopo undici giornate, il bilancio è impietoso ma non definitivo. Cinque punti, nessuna vittoria, ultima in classifica.
Eppure, per la prima volta, si è intravista una Fiorentina meno confusa. Il 3-5-2 sembra cucito su misura per valorizzare Gudmundsson e Piccoli, due giocatori che, con più libertà e più palloni “sporchi” da attaccare, possono ridare senso al reparto offensivo.
Anche dietro, la leadership di Pablo Marí e l’esperienza di De Gea possono diventare la base di una tenuta difensiva più solida, a patto di mantenere l’equilibrio tra le linee.
Ma servono interventi concreti: più aggressività dopo il vantaggio, una catena destra più lucida (Dodô continua a perdersi tra errori e scelte sbagliate) e soprattutto un atteggiamento emotivo diverso.
Non si può più affrontare ogni partita come un esercizio di palleggio sterile. Serve concretezza, cattiveria, ritmo.
Conclusione: la speranza dentro la crisi
La Fiorentina è in crisi profonda, ma non è condannata. Il problema non è più tecnico, è psicologico.
L’arrivo di Vanoli ha portato un piccolo scossone: la squadra è più corta, più diretta, più viva. Ma la salvezza passerà dalla capacità di cambiare mentalità.
Non bastano i moduli, servono nervi, sacrificio e rabbia. Serve riscoprire quello spirito che Firenze riconosce e pretende: orgoglio, appartenenza, intensità.
Undici giornate senza vittorie raccontano un disastro, ma anche una possibilità: se la Fiorentina saprà leggere i propri errori e liberarsi dal peso delle abitudini, il campionato può ancora essere riscritto.
Non basterà il talento, servirà l’anima. E dopo mesi di inerzia, è l’unica cosa che questa città chiede davvero.