Daniele Adani, calcio mistero senza fine bello - Calcio News 24
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2015

Daniele Adani, calcio mistero senza fine bello

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«Non bisogna mai parlarsi addosso: racconti football alla gente, mica a te stesso. E la gente è più intelligente di te…»

Lele Adani mi saluta gioviale e – dopo pochi minuti di conversazione scanditi dal suo smaccato accento emilianomi torna improvvisamente in mente un vecchio album che ho molto amato ai tempi dell’università. L’ex difensore di tanto calcio italiano (i primi passi nel Modena, la Lazio vista di sfuggita, parecchio Brescia, la gloria vissuta brevemente nella Fiorentina di fine millennio, l’Inter chiaroscurale di Cúper e Zaccheroni, poco Ascoli e il commiato con l’Empoli) parla spedito ed io lo seguo ma, allo stesso tempo, ripenso a ‘The Good Will Out‘, il debutto degli Embrace, ragazzi di Bailiff Bridge (puro Yorkshire) tifosissimi del Leeds United. Una piastrella Britpop, la loro, nell’ampio pavimento del rock inglese.

E la bizzarra associazione mentale è presto spiegata. Quel disco, ricco di ballate micidiali ben prima dell’avvento dei Coldplay, aveva un titolo che in italiano potremmo tradurre liberamente con ‘Il bene alla fine preverrà’. Le cose belle verranno fuori. E durante i suoi Tempi Supplementari, Adani ha parlato così bene di football che l’esigentissima Italia pallonara lo vede tuttora come una voce competente, coinvolgente ed onesta. Una delle più apprezzate e seguite del contingente mediatico targato Sky, sicuramente la più gradita. Il suo segreto? Una tonnellata di competenza fusa in uno stampo di naturalezza. Un cartellino rosso sventolato in faccia alla retorica. Uno per cui Blatter potrà pure vincere un’elezione, ma non potrai mai far sua la guerra e rubare l’anima a chi il calcio lo adora sul serio. Ok, è giunto il momento di conoscerlo meglio.

Nel 2008 smetti a 34 anni con l’Empoli in Serie A. Poi però giochi ancora due stagioni, tra i dilettanti, con la Sammartinese.
«L’idea mi venne già in Toscana. Il fatto è che, quando termini l’attività da calciatore professionista, devi sempre fare  ordine nei tuoi pensieri. Metterti in pace la coscienza e non avere rimpianti. Da questo punto di vista i due anni con la Sammartinese sono stati l’ideale per me. Fin dai tempi di Empoli volevo uscire dal giro nella maniera giusta e così fortunatamente è stato.»

Subito dopo arriva repentina l’offerta per fare il vice di Silvio Baldini al Vicenza. Ma ad ottobre del 2011 l’avventura di entrambi è già finita: troppa fretta in quel caso?
«No, normale susseguirsi degli eventi e nessun rimpianto pure in quel caso. All’epoca non avevo ancora deciso bene cosa avrei fatto ‘da grande’ e quindi ogni opportunità era giusta sfruttarla fino in fondo.»

Ora l’hai decisamente capito cosa vuoi fare, tant’è che – nel novembre dell’anno scorso – è deflagrato il tuo no a Roberto Mancini che ti aveva chiesto di andarlo ad aiutare all’Inter. Una storia molto bella e forse pure un po’ romanzata…
«Mezza Italia mi ha dato del pazzo a rifiutare la panchina nerazzurra in veste di secondo di Mancini, ma per me si è trattato solo di inevitabili coincidenze temporali. Voglio dire: un mio momento di crescita personale a Sky si è andato a sovrapporre con le esigenze di una squadra, una big che stava rifondando la sua area tecnica. Quando ho scritto quella lettera postandola su Twitter – lettera in cui mi mettevo a nudo spiegando le mie ragioni personali – qualcuno ha capito, qualcun altro meno. Pazienza.»

L’importante è che abbia capito il reale destinatorio…
«Quella è stata la conclusione più appagante. Roberto (Mancini, NdR) mi ha compreso come essere umano e questo, credimi, va ben oltre il lavoro, le cariche e le componenti tattiche. Il Mancio è un vero amico.»

Riassumendo: spedisci un “no, grazie” all’Inter perché vuoi fare con tutto te stesso la seconda voce a Sky. Ecco, quando hai scoperto di avere “autorevolezza” in ciò che dici?
«Quando il destino mi ha fatto capire di possedere l’amore per il calcio. Ho sempre parlato di pallone nella mia vita: al paese (Adani è di Correggio come un certo Luciano Ligabue e, ancor di più, Pier Vittorio Tondelli. NdR), al bar con gli amici, nello spogliatoio, in campo ecc. E mentre discutevo di pallone, non mi fermavo lì e basta: cercavo di capire a fondo questo meraviglioso sport.»

Cosa ne pensi delle vecchie telecronache ad una voce alla Carosio-Martellini-Pizzul? In Germania, pare, stiano lentamente riprendendo piede.
«Se le vuole il grande pubblico, perché no? Le cose cambiando, d’altronde: la Storia è sempre fatta di rivoluzioni e grandi ritorni. E questo lavoro lo si dovrebbe sempre fare per gli altri, mai  per se stessi. Parlarsi addosso è la cosa più fastidiosa perché il pubblico a casa è molto più intelligente e preparato di quel che se ne dica. Se sbagli, te la tiri o bari, se ne accorge subito.»

Tu ti sentiresti pronto a fare il leader di una telecronaca? Da solo, microfono accesso e via dal primo minuto fino alla lotteria dei calci di rigore: 120 minuti e passa di puro Adani-flow…
«No, io non potrei mai essere all’altezza di una prima voce perché quello del telecronista resta un compito difficilissimo. Non ti può sfuggire niente e non devi mai far calare la tensione. La seconda voce ha un altro ruolo: nota un particolare, si concentra su di esso e poi lo commenta a dovere

In pratica voi seconde voci siete il sale che condisce una buona ricetta…
«Esatto, come definizione ci sta alla grande! (ride)»

Cos’hai provato quest’anno assistendo al crac societario del Parma e alle ingerenze degli ultras romanisti? Ti sono riaffiorati vecchi incubi in quanto tu hai militato nella Fiorentina di Vittorio Cecchi Gori (fallita nel 2002) e te la sei dovuta vedere in prima persona con la tifoseria belligerante del Brescia (Adani rescisse il contratto con le Rondinelle, nel 2004, dopo che alcuni facinorosi invasero il terreno di gioco, NdR)…?
«Incubi? Assolutamente no. Io, nella mia vita, penso di aver vissuto sia il bello che il brutto del football e resto fortemente convinto che il bello alla fine prevalga sempre. Parma e Roma sono stati episodi tristi, ma chi ama il calcio sa andare oltre queste cose. Ha la consapevolezza che chi vuole bene al pallone sarà sempre in maggioranza rispetto ad una dannosa minoranza che vuole deturparlo.»

Fa molto ‘Star Wars’, sai?
«Sì, il bene vince sempre sul male: te lo dico seriamente. E fortuna che funziona così!»

Perché si fa così tanta fatica ad accettare che il Calcio – oltre che agonismo e tifo – sia anche Cultura con la ‘C’ maiuscola?
«Perché certa gente non riesce ad andare oltre all’apparenza. Il calcio è spettacolo: uno show magico e crudele che prevede il concetto di sconfitta.»

Tipo Mauricio Pinilla del Cile che, agli scorsi Mondiali, coglie la traversa del Brasile al 119esimo minuto col risultato inchiodato sul 1-1…?
«Bravo: crudele perché a volte si tratta davvero di una banale questione di centimetri. (riflette) Sai, nello sport non bisogna solo saper perdere, ma anche saper vincere con dignità. Perché vittoria e sconfitta sono solo due facce della stessa medaglia. Quando la gente capirà questo principio, avremo finalmente la Cultura a cui ti riferivi prima. Non è facile, lo ammetto: perdere non piace a nessuno, ma è necessario e previsto dalle regole.»

Mi sveli nell’ordine le tre partite indimenticabili della tua vita da giocatore, commentatore e semplice spettatore?
«Con me in campo senz’altro Arsenal-Fiorentina del 1999 valevole per la Champions League: quella del gol di Batistuta a Wembley. Da commentatore Spagna-Cile agli scorsi Mondiali in Brasile: 2-0 per i sudamericani e la Roja che torna ad essere il soprannome principale della nazionale cilena e non iberica (difatti, in origine era esattamente così. NdR). Da spettatore ricordo invece con affetto la finale dei Mondiali ’86 in Messico con l’Argentina di Maradona che batte 3-2 la Germania Ovest di Rumenigge e Matthäus. Fu un match palpitante e pieno di capovolgimenti di fronte che coinvolse tutto il campeggio dove stavo trascorrendo le vacanze. Tifava chiunque, quella sera, prete e ragazzine comprese! (ride)»

Senti, l’intervista esce il 2 giugno. Mi sa che ti tocca un pronostico su Juventus-Barcellona in quel di Berlino…
«Spero di sbagliarmi, ma io dico Barça. Per una semplice ragione: Luis Enrique può contare sul miglior Messi di sempre, pari solamente a quello del primo Guardiola. L’hombre del partido rischia di essere lui: un Messi altruista e in grado di far decollare quello stupendo tridente blaugrana.»

L’intervista è finita, Lele. E, come sospettavo, mi è piaciuto parlare del “più bel giuoco del mondo” assieme a te. Dimmi la verità: lo scriverai mai un libro in vita tua? Tipo quelli di Jorge Valdano...
«Chi, io?! No, dai: non penso che sarei all’altezza di certa letteratura. Io sto bene così a fare quel che faccio. Spero con sobrietà.»

Rubrica a cura di Simone Sacco – per comunicare: calciototale75@gmail.com