L'etica nel calcio giovanile: prima l'educazione e poi il risultato. Uno sguardo sulle giovanili italiane - Calcio News 24
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2015

L’etica nel calcio giovanile: prima l’educazione e poi il risultato. Uno sguardo sulle giovanili italiane

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Il reportage dall’incontro “L’etica nel calcio giovanile” con protagonisti Massimo Doni, Giulio Coletta, Alessandro Magni e Paolo Mangini

Dopo la sentenza sul vincolo per i calciatori che hanno compiuto sedici anni, da alcuni definita come la “sentenza Bosman” del calcio giovanile, e in seguito alle mille vicende degli ultimi giorni, l’evento L’etica nel calcio giovanile è arrivato proprio nel momento più azzeccato. Nella splendida cornice di Villa Sonnino a San Miniato in Toscana il Rotary Club Santa Croce sull’ArnoFucecchio ha organizzato questo dibattito con protagonisti d’eccezione: oltre alle società professionistiche e dilettantistiche del territorio, anche ospiti importanti hanno preso parte al convegno moderato da Maurizio Zini. Il generale Giulio Coletta, responsabile del settore giovanile della Lazio (che ha pure parlato in esclusiva ai nostri microfoni), il procuratore Alessandro Magni, il Professor Paolo Mangini, Coordinatore Regionale del Settore Giovanile Scolastico per la Toscana, e anche Massimo Doni, Presidente del Comitato Arbitri di Pistoia, hanno affrontato la delicata tematica del comportamento delle società italiane a livello di giovanili.

MANGINI E L’EDUCAZIONE – Per primo ha parlato il professor Paolo Mangini, il quale ha spiegato la situazione in Toscana: «Alcuni concetti in questa regione a livello di calcio giovanile sono passati, ci sono organizzazioni che fanno progetti lodevoli. Se tutti pensassimo che lo sport e l’attività giovanile siano un grande mezzo di educazione allora anche le società dilettantistiche e le altre strutture non avrebbero tutti questi problemi. Non bisogna focalizzarsi solo sugli aspetti tecnici ma anche di educazione a stare con gli altri, bisogna pensare agli aspetti di formazione. Lo sport deve essere un mezzo per poter vivere nella società civile, senza ovviamente tralasciare il fine tecnico che deve andare di pari passo. Il settore giovanile scolastico supporta tutti i nostri tecnici ma anche psicologi e medici e altre professionalità, noi vogliamo che i ragazzi compiano un percorso formativo e così si migliora sia il calcio sia i ragazzi stessi». Sempre Mangini è tornato sulla questione vincolo e ha detto la sua su come può essere cambiata in futuro questa normativa: «Succede di tutto dai sedici anni in poi, specialmente per le società dilettantistiche, perché dopo gli Allievi non c’è più il tesseramento annuale ma pluriennale e dura dal compimento dei 16 a quello dei 25 annni. O troviamo il sistema di contemperare le giuste esigenze della società con quelle dei ragazzi rivedendo il vincolo, oppure ci penserà l’Unione Europea. Se riusciamo a governarlo e a cambiarlo allora possiamo trarne dei vantaggi, altrimenti non succede. Non è pensabile che un ragazzo firmi a sedici anni fino a quando non ne ha venticinque, poi tra l’altro firmano i genitori. Il vincolo è una cosa da modificare, anche se non dovrebbe sparire».

DONI E GLI ARBITRI – Lo sport come mezzo di formazione è una prerogativa anche per la classe arbitrale, come ha confermato Massimo Doni. Il Presidente del Comitato Arbitri di Pistoia ha infatti dichiarato: «Lo sport deve essere mezzo di formazione e noi dobbiamo formare chi farà la formazione, è una cosa difficile. La nostra federazione ha un compito arduo con questi ragazzi, che da noi arrivano a quindici anni. In una sezione arbitrale oggigiorno la designazione di una gara di Esordienti può creare problemi addirittura. Ai ragazzi diamo nozioni tecniche ma di tipo comportamentale; se un giocatore è supportato dai compagni, un arbitro invece è da solo e deve decidere le sorti di una partita». La situazione attuale in Toscana e in Italia non è delle migliori, conferma Doni: «Oggi si è passato un po’ il limite, riscontriamo molte cose positive e negative della società nel calcio. I ragazzi vengono educati al sacrificio e al comportamento corretto ma spesso e volentieri questa educazione viene scalfita dal risultato. Dal nostro punto di vista cerchiamo di educare i giovani arbitri a un comportamento corretto, a noi non interesse se uno azzecca tutte le decisioni ma il unto focale è formare l’arbitro e farlo decidere di testa sua senza che sia travisato da giocatori o dirigenti. La correttezza in campo è la cosa principale, un arbitro non si vede mai ma poi gli occhi vengono puntati su di lui ogni volta che accade qualcosa». Infine una sorta di monito da condividere, perché non si può pensare che debba essere solo l’arbitro a educare in campo: «Molti dicono che l’arbitro debba essere un educatore, ma la realtà è che gli educatori veri devono essere i dirigenti, l’arbitro è un rappresentante della Federazione e svolge solo un servizio».

L’ESPERIENZA DI MAGNIAlessandro Magni invece è un procuratore che lavora specialmente all’estero, avendo portato molti giocatori in Asia o Sudamerica (alcuni di voi conosceranno sicuramente Simone Quintieri, che ha giocato nel Semarang). Il suo ruolo non è ben visto dagli amanti di questo sport ma Magni ci ha tenuto a precisare: «Faccio un lavoro che nel calcio è visto come il cancro, il procuratore è quello che ha trasformato il gioco in business secondo l’opinione di molti. L’etica nel calcio purtroppo ricopre un ruolo secondario in un ambiente che vuole inseguire il risultato a ogni costo. Sono specializzato nei campionati esteri e ho avuto la possibilità di confrontare la realtà italiana con quella straniera, non c’è grossa differenza anche se dei distinguo vanno fatto. Io personalmente non credo di essere il male, si deve partire dal presupposto che il risultato sportivo ed economico è il fine ultimo del calcio, l’etica sta nel come lo si raggiunge. Bisogna seguire una strada del lecito e del bene per arrivare a ottenere quello che si vuole. Ogni genitore pensa che il figlio sia il migliore e meriti sempre di più, così in Italia come all’estero, ma è anche vero che fuori dal nostro paese a causa di alcune differenze economiche le squadre si comportano diversamente coi vivai». Avendo lavorato molto fuori dall’Italia, magni è a pieno titolo un esperto di calcio estero e infatti ha elencato le differenze tra la mentalità italiana e le altre: «Quel che si distanzia maggiormente tra Italia e estero sta in due norme FIFA, mi riferisco in particolare all’articolo 19-19bis, quello per cui è stato punito il Barcellona. Non si possono trasferire minorenni extracomunitari in un altro paese, ma in Italia si investono risorse per aggirare queste norme, all’estero questi soldi non ci sono e quindi si investe nel proprio settore giovanile per necessità. Così all’estero si investe nei giovani del vivaio perché diventino un’ossatura anche del proprio paese, poi all’estero non si spendono soldi per le naturalizzazioni, o almeno si fa in minore misura e non si lavora così. Chi si comporta in modo diverso si trova in casa altri giocatori. Ho portato calciatori fuori dall’Italia, è stato un lavoro opposto a quello che è successo in Italia, ho portato gente in Indonesia o in Paraguay ma anche in Svezia o Norvegia o paesi più vicini». Infine due esempi pratici da parte di Magni per spiegare come all’estero si valorizzano i giovani: «Faccio due esempi per capire le differenze a livello di giovanili. In Svizzera Locarno, Chiasso, Bellinzona e Lugano hanno dato vita al Team Ticino che partecipa ai campionati nazionali ed è formato dai giocatori che non hanno trovato spazio nelle quattro squadre ticinesi. Oppure un altro esempio è in Bulgaria dove esordiscono moltissimi under 18 e addirittura in Serie B sei titolari della squadra devono essere under 21. I settori giovanili bulgari portano i giocatori a diventare davvero calciatori di prima divisione. Servirebbero norme anche in Italia per favorire l’uso di giovani e anche di calciatori del vivaio».

LE IDEE DI COLETTA – Ha preso poi la parola il Generale Giulio Coletta che, oltre ad aver lavorato nella Lazio di Lotito praticamente dall’insediamento del presidente, ha alle spalle una trafila come istruttore e allenatore che da sola varrebbe più di quella di molti tecnici di Serie A: «L’etica nel settore giovanile è fondamentale. Oggi però si punta solo al risultato e si mortificano i ragazzi puntando solo su quelli che danno più in un dato momento, alla Lazio questo ho cercato di stroncarlo. La scuola calcio serve per insegnare, non ci sono allenatori ma istruttori. Non c’è risultato a tutti i costi, si devono insegnare le regole e il rispetto sia per i compagni e gli avversari. Quelli che allenano i ragazzi non devono essere esagitati, se uno sbaglia deve continuare a imparare, dall’ottica dell’allenatore invece bisogna impostare l’allenamento in un certo qual modo». Umiltà ma anche tanto lavoro, Coletta ha proseguito continuando a parlare dei metodi utilizzati dai biancocelesti: «Bisogna partire dalle cose semplici e bisogna far giocare tutti, se non si fanno giocare tutti i calciatori non si è pronti ad allenare almeno a livello di giovanili. Io ho avuto una scuola calcio vicino a casa mia prendendo un campo di una parrocchia, volevo togliere i ragazzi dalla strada per farli socializzare e farli crescere attraverso il calcio. Non volevo vincere sempre, tant’è che con la mia prima squadra perdemmo tutte le partite in modo clamoroso, ma nel girone di ritorno crescemmo e cominciammo a vincere. L’obiettivo è far crescere e divertire i giocatori e anche alla Lazio facciamo così». La ricetta per la Lazio è creare uomini prima che calciatori, ha confermato Coletta: «Un esempio recente laziale, la squadra del 2002 ha quattro portieri e l’allenatore voleva portarne solo due a un torneo, io voglio che giochino tutti altrimenti l’istruttore viene cambiato. Se non si fanno giocare tutti i giocatori allora vuol dire che non si è saputo farli crescere. Tutti si devono sentire importanti e devono essere tranquilli. Secondo me c’è allenatore e allenatore, chi ha la scuola calcio non può fare le cose che fanno i grandi, altrimenti diamo esempi sbagliati. Chi ha i bambini deve insegnare i fondamentali, oggigiorno non si può più giocare per strada e quindi bisogna lavorare sui ragazzi. Ci sono tre step: scuola calcio, settore giovanile e grandi, sono tre percorsi diversi e vanno fatti in modo differenti. Non bisogna puntare sempre a vincere ma a formare. Ogni società di un certo livello dovrebbe cercare di curare la propria zona di competenza, uno della provincia l’impegno che può dare per la sua città non può darlo per gli altri ma purtroppo accade che si puntano solo a stranieri e giocatori in giro per il mondo». E Simone Inzaghi come lo vede? Coletta ha risposto: «Lui prima di diventare allenatore ha visto tre partite della sua squadra al mio fianco e ho cercato di spiegargli dettagliatamente ogni giocatore, poi mi ha detto di non lasciarlo solo quando avrebbe preso la squadra. Inzaghi ha svolto un lavoro egregio e come allenatore pare meglio del fratello. Scherzi a parte di recente mi ha rimproverato di non averlo mai visto quest’anno come spettatore, ma tanto la Primavera vince sempre e che ci vado a fare».