Marino Magrin, ho difeso il mio amore (per il 10) - Calcio News 24
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2015

Marino Magrin, ho difeso il mio amore (per il 10)

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«Il soprannome ‘Magren’ pronunciato alla francese? Guarda che era una cosa seria, mica una presa in giro…»

Marino Magrin. classe 1959, pure oggi andrà al lavoro. Tragitto Bergamo-Milano, sempre il solito, ad andatura di crociera e con in sottofondo un bel CD dei Nomadi. Destinazione il centro sportivo Vismara, periferia Sud meneghina, dove si allenano tutte le rappresentative giovanili del Milan. Anche un certo Filippo Inzaghi, qualche tempo fa, era di casa da queste parti. Magrin (una bella carriera in serie A da trequartista amatissimo a Bergamo,  poco capito a Torino e rispettato a Verona ormai a fine carriera) è l’uomo delle divise a strisce: nerazzurre ai tempi gloriosi dell’Atalanta (una promozione in A nel 1984 ed una finale di Coppa Italia contro il Napoli maradoniano tre anni dopo), bianconere nei suoi due anni alla Juventus (una Juve in pieno trauma post-Platini) e rossonere ora che allena i “Pulcini 2005” della società di Silvio Berlusconi. I percorsi mai banali della vita, direbbe qualcuno.

Le cose vanno bene ultimamente, Magrin insegna – come detto – ai piscinin («Siamo reduci da un torneo pasquale in Spagna dove abbiamo battuto addirittura il Barcellona. Nel 2014, invece, siamo arrivati in finale col Valencia», mi spiega lui) e attorno si respira aria di primavera. Osservo Marino – fisico sempre asciutto e capello brizzolato tipo il conduttore radiofonico Linus – e percepisco un vago sentore di felicità professionale. Il perché è presto detto: «Io, da ragazzino, andavo pazzo per Gianni Rivera ed essere approdato al Diavolo nel 2009 è stato un regalo bellissimo per i miei primi cinquant’anni.». Ok, ora è venuto il momento di analizzare anche il resto dei suoi Tempi Supplementari

Nostalgia del calcio dei grandi mai? Parlo di sedere in panchina, ovviamente.
«Potrei visto che, nella mia logica dei piccoli passi, ho ottenuto il Master a Coverciano, ma ormai sono troppi anni che mi sento perfettamente a mio agio nei settori giovanili: prima nell’Atalanta ed ora questa bella soddisfazione di lavorare per i Pulcini del Milan. Mi piace crescere i ragazzi fin dalle prime radici, mentre tra gli adulti c’è sempre qualcosa che non torna. Prendi me: mister del Mantova in C2, nel 1998, esonerato all’improvviso. Con la squadra a soli cinque punti dal primo posto…»

Il football è sempre stato una costante nella tua vita oppure dai tempi del tuo ritiro, 1993, hai anche desiderato fare altro?
«Un’opzione di cambiare, a quei tempi, l’avrei anche avuta, ma amo troppo questo mestiere: l’odore del campo, correre dietro ad una palla, insegnare day by day quello che mi sono faticosamente guadagnato. D’accordo, mi considero una persona fortunata fin da quando Mister Ottavio Bianchi mi portò all’Atalanta dando di fatto inizio alla mia ‘scalata’; però lasciami aggiungere che ogni singolo ingaggio me lo sono meritato puntando solo ed esclusivamente sulle mie forze. La parola ‘procuratore’ ancora oggi non so nemmeno cosa significhi… (sorride)»

Avresti sempre potuto fare il cantante nella vita visto che l’inno ufficiale dell’Atalanta l’hai cantato non una, ma ben due volte…
«La prima versione di ‘Forza Atalanta’ risale al 1984 e fu scritta per celebrare la conquista della serie A. Poi nel 2007 – per il centenario della squadra – l’abbiamo migliorata a livello di ritmiche. Era strano, quando giocavo per la Juventus e il Verona, tornare a Bergamo e sentire dagli altoparlanti la mia voce che incitava i giocatori nerazzurri! (ride) Poi, se non ricordo male, nel 1986 incidemmo una canzone natalizia assieme a tutti i giocatori della Dea, ma lì non facevo la voce solista: prendevo solo parte al coro.»

Deduco che ti piaccia la musica…
«Sì, mi è sempre piaciuto cantare: da piccolo mi esibivo all’oratorio! Il mio gruppo preferito? I Nomadi, ovviamente. Sono un grande fan/amico di Beppe Carletti e soci e il 20 aprile prossimo (l’intervista si è svolta qualche giorno prima, Ndr) li andrò a sentire nella mia Bergamo.»

Per fare una citazione del gruppo di Novellara, nella Juventus di fine anni ’80 (in piena ricostruzione post ciclo vincente di Trapattoni) ti sei mai sentito un po’ “vagabondo”?
«No, il periodo juventino per me fu un coronamento di carriera. Quando ho iniziato a tirare i primi calci a metà anni ’70 nel Bassano Virtus, nessuno nel paese – tra i cosiddetti ‘esperti da bar’ – avrebbe scommesso mezza lira su di me: dicevano che ero gracile, che non avevo il fisico per dettare i tempi a centrocampo, che non sarei mai approdato in serie A… Ed invece nel 1987 – dopo l’ennesima bella stagione all’Atalanta – mi vollero tre squadre contemporaneamente: il Milan (che aveva appena ingaggiato Arrigo Sacchi), l’Inter del Trap e la Juventus di Boniperti. Alla fine il presidente Bortolotti scelse i bianconeri e non ti dico la mia soddisfazione di conoscere personalmente Cabrini e Scirea…»

Però la società bianconera, ancora traumatizzata dall’addio al calcio di Platini, decise di non darti la 10 (che finì a De Agostini, un terzino!) e ti dirottò stranamente sulla 8…
«Presi quella maglia con piacere: in fondo era pur sempre il numero di Marco Tardelli, altro grandissimo giocatore. E poi, anche lì, decisi di attuare la politica dei piccoli passi: ‘Non volete darmi la casacca di Platini? Ok, vorrà dire che la conquisterò un pezzettino alla volta’. Il 6 marzo del 1988 pensai di aver raggiunto quel traguardo: battemmo l’Inter 1-0 grazie ad un mio gol su rigore (ero capocannoniere della Juventus a quel punto) e per la trasferta successiva ad Avellino avrei in qualche modo preteso di giocare con la 10. Morale? Al giovedì, durante l’allenamento, mi infortunai al quadricipite destro e la mia stagione si interruppe di colpo.»

Dimmi la verità: meglio vincere un po’ di coppe e scudetti giocando al fianco di Roi Michel (e diventare quindi uno dei tanti) oppure arrivare alla Juventus in piena restaurazione?
«A parte l’infortunio che ti dicevo, non ho alcun rimpianto dei miei due anni alla Juventus. A me quella squadra piaceva ed ero pure partito col piede giusto segnando, sempre su rigore, alla prima giornata di campionato contro il Como. Certo, si respirava un po’ di inevitabile tristezza perché un ciclo era appena finito e, allo stesso tempo, erano sbocciati il Milan stellare e il Napoli di Maradona, ma l’impegno da parte di tutti non venne mai meno.»

Anche da parte di Ian Rush?
«Scherzi? Lanciare Rush verso la porta era una delizia. E non era nemmeno così difficile visto che lui andava a nozze contro le squadre schierate a zona. Certo, sbagliava spesso, si lamentava del clima atmosferico di Torino, aveva l’ostacolo della lingua, ma alla fine riuscì comunque a segnare una decina di gol tra coppe e campionato (all’epoca si giocava molto meno di ora, Ndr). Ricordo un Juventus-Milan al Comunale vinta 1-0 da loro con incornata pazzesca di Gullit: quel giorno feci tre passaggi filtranti verso il gallese mettendolo praticamente di fronte a Giovanni Galli che si superò tutte e tre le volte. Al martedì glielo dissi: ‘Ian, ma porca miseria! Guarda che se facevi almeno un gol, un po’ di meriti me li sarei presi anch’io!’ (risate)»

Ti pesava quel soprannome ‘Magren’ (pronunciato alla francese) che ti appiccicò qualche simpatico giornalista?
«Io non lo presi mai come uno sfottò: Magren era serio, mica ironico. Ricordo che il Guerin Sportivo ci fece addirittura un servizio a riguardo e comunque era solo una diretta conseguenza di come mi chiamavano già a Bergamo, alias ‘lo Zico dei poveri’. Non era una provocazione, ma la realtà dei fatti: nella serie B ’83/’84 segnai qualcosa come 13 gol di cui ben 9 su punizione. Ero diventato uno specialista.»

Le punizioni dal limite: il tuo coniglio che sbuca dal cilindro…
«Se chiudo gli occhi me ne vengono ancora in mente tre. Una importantissima la segnai al Comunale di Bergamo contro il Milan, nel 1985, e fu il gol che ci permise di restare in A: un secondo dopo esplose un boato provocato da 40mila atalantini! Poi un’altra contro l’Empoli, ai tempi della Juventus, ma lì più che dal limite la imbroccai da circa 40 metri. A quel punto avevo già due gol nel paniere e potevo fare tripletta, ma alla fine cedetti il rigore a Rush: che pirla! (ride) Infine una rete segnata al Bentegodi con la casacca del Verona contro la Fiorentina: tiro dal limite, Carlos  Dunga mi viene incontro e non c’è praticamente più spazio a disposizione…»

Me la ricordo, quella.
«In pratica chiusi gli occhi e la misi nel sette. Era poco prima di Natale, lo stadio impazzì e Dunga si guardò alle spalle incredulo. Mai preso un sette più sette di quello, dammi retta.»

Cosa ti ha insegnato il calcio in definitiva?
«Che in campo, con l’impegno e la costanza, alla fine ci vanno solamente gli attori. Tra cui Magrin. Gli altri, gli spettatori, osservano e tifano. E a volte parlano troppo…»

Si ringrazia A.C. Milan per la foto attuale di Marino Magrin che appare in quest’articolo.

Rubrica a cura di Simone Sacco (per comunicare: calciototale75@gmail.com)