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Folate lontane di un vento di passioni

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Il gol di Shevchenko in Milan – Juventus del 2001-02, una prodezza di un fenomeno

Il buio ormai è calato da un pezzo a Milano, fa un freddo cane. I riflettori di San Siro rischiarano tutta la zona, pervasa da un immane silenzio, con i soli boati dello stadio a risuonare nell’ambiente circostante. Alla spicciolata gli ultimi tifosi si avvicinano al Meazza, forse in ritardo, forse in fila da ore. Da qualche settimana il clima è cambiato al Milan e anche i fan non vogliono perdersi la svolta tanto attesa. Due stagioni senza vittorie sono troppe per Silvio Berlusconi, ha cambiato tre allenatori in pochi mesi e ha chiamato Carlo Ancelotti, lo storico perdente della Juventus. Juventus che proprio Ancelotti si trova di fronte nel gelo di Milano, in uno stadio dove ha segnato al Real Madrid e ha vinto qualsiasi cosa, figurarsi se si fa intimorire da un Milan – Juve qualsiasi. Nel buio pesto milanese il catino da ottantamila posti si vedrebbe anche da Pavia. Per strada solo gli interisti, che dall’alto dei loro ventotto punti gufano e festeggiano la vittoria nel derby minore col Brescia. Il Milan vuole rimanere lassù, agganciato alle grandi, e deve vincere per riuscirci. Ottantamila persone sono dentro il Meazza, gli occhi puntati sulla partita. Venti minuti e ancora nulla, il Diavolo non punge e la Juventus di Lippi non sembra premere sull’acceleratore. Poi s’alza un vento, un vento strano, una folata e via. Il pallone, al minuto ventitré, arriva tra i piedi di Andriy Shevchenko. Vento di passioni.

EDGAR DAVIDS – L’olandese con le treccine e gli occhiali si chiama Edgar Davids, gioca centrocampista da tutta la vita e probabilmente odia le maglie rossonere, da quando gli dettero della mela marcia e lo mandarono via da Milanello. Alla Juventus è rinato, si è creato un personaggio ed è uno di quei giocatori che le tifoserie amano, a patto che non sia un avversario. Davids osserva il campanile alzato alla bell’e meglio da Rui Costa e caracolla in mezzo al campo, è distante dall’avversario più vicino e cerca di ripiegare verso la linea difensiva. Javi Moreno si getta sulla palla e di testa serve l’assist più importante della sua vita a Shevchenko, che stoppa il pallone e non alza la testa fino a dieci secondi dopo. Dieci secondi che passano in un secolo. Davids si avvicina a Shevchenko e cerca di stargli dietro, è tentato dal tackle ma la zona di campo si restringe man mano che Shevchenko avanza. Sheva ha bene in mente cosa fare, vuole andare in avanti e calciare. Da quando ha iniziato a giocare a pallone l’ucraino non ha mai fatto trapelare emozioni, fosse nato attore molto probabilmente sarebbe stato Arnold Schwarzenegger in qualsiasi film. Corre sospinto dal vento e a San Siro c’è chi in quel momento ripensa alle dicerie su Sheva all’arrivo a Milano. Dicevano fosse abituato ad allenamenti militari con il colonnello Lobanovskyi alla Dinamo Kiev e che dopo la fine della prima seduta a Milanello avesse chiesto se quello fosse stato il riscaldamento. Si inarca, lascia sul posto Davids, sprinta e va.

MARK IULIANOMark Iuliano invece è il difensore che si stacca dalla linea a quattro. A regola nemmeno Paolo Montero è in posizione ma almeno ha l’alibi di essere andato dietro a Javi Moreno. I difensori uruguaiani, si sa, seguono l’uomo in marcatura ovunque e quindi Montero osserva l’azione nel ruolo in cui di solito dovrebbe stare Tacchinardi, ma tant’è. Se c’è una cosa che insegnano ai difensore è di temporeggiare e di non andare mai sull’avversario a meno che non ci sia la sicurezza piena di prendere il pallone e far così ripartire l’azione. Iuliano, al ventitreesimo minuto di un freddissimo Milan – Juventus, decide che per una volta in vita sua non rimarrà ingabbiato in uno schema a quattro. Se Montero è là davanti anche lui, per una volta, vuole provare a staccarsi dalla linea. E lo fa. Corre a perdifiato incontro al vento biondo che soffia verso la porta bianconera. Marcello Lippi, sigaro in bocca in panchina, ha l’aria di chi sta portando il proprio figlio a scusarsi con la signora a cui ha appena tirato un sasso. Shevchenko si vede arrivare questo difensorone addosso, con la gamba sinistra in avanti a togliergli la sfera. La palla ancora non è ferma in terra, il milanista la sposta una frazione di secondo prima che Iuliano gliela rubi e col corpo fa un movimento a eludere il giocatore della Juve, ormai saltato. Nel fermo-immagine Shevchenko è solo, non ha compagni in area e il solo Rui Costa è due maglie bianconere più in là, difficilmente raggiungibile. In quattro marcano Sheva, che continua a sospingere.

GIANLUCA PESSOTTO – Il volto da catechista sulla fascia sinistra appartiene a Gianluca Pessotto, una vita a attaccare e difendere allo stesso tempo. Il mestiere del terzino è straziante, non si fa in tempo a pensare di poter essere utili in avanti che subito c’è da tornare alla posizione originaria. Poi, beffa della numerazione personalizzata, Pessotto indossa pure il numero sette, che normalmente appartiene all’ala, colui che può anche permettersi di non rientrare. Il sette però, stampato in un bianco abbagliante sul rosso e sul nero, è pure sulle spalle dell’uomo che, spostandosi sempre più verso destra, sembra non avere soluzione di continuità. Il numero è lo stesso, su questo siamo certi, ma la sfida è impari. Pessotto, abituato ai rigidi schemi sabaudi da terzino della Juventus di Lippi, vede Montero e Iuliano ormai fuori posizione e perde il senno. Non è possibile che questo ucraino abbia creato così tanto scompiglio nella difesa più ordinata d’Italia. Da ragazzo aveva letto che quando si incontra un orso è bene gettarsi a terra e fingere di essere morti per poterlo eludere. Shevchenko non è un orso, ma in quel momento fa paura: Pessotto si sdraia, con la speranza tipica del kamikaze, e il suo tackle non fa altro che rendere più bello il corso degli eventi. Shevchenko è ormai defilato sulla destra, al vertice alto dell’area di rigore. Il pallone tra i piedi, il fisico eretto. San Siro non è più freddo, i tifosi nel Milan sono nella classica posizione di quando sta per succedere qualcosa di incredibile: non sono seduti e nemmeno in piedi, aspettano. Devono attendere solo un secondo, un secondo e mezzo.

GIGI BUFFONGianluigi Buffon è il portiere della Juventus, arrivato dopo il sacrificio dell’agnello d’oro Zidane. Stiamo parlando di uno dei portieri più forti in Europa, quindi al mondo. Uno che può permettersi a dicembre a Milano di giocare con le maniche corte e di essere ugualmente reattivo e naturale. Qualcosa però caratterizza Buffon, servirebbe una telecamera fissa sul suo volto perché una smorfia impercettibile gli appare sulla faccia in un momento particolare, quando sa che sta per accadere una prodezza. Succede sempre, perché è l’unico modo per fargli gol. Quando il ventitreesimo scossa a San Siro, sul viso di Buffon c’è quella smorfia. Se solo Dino Buzzati potesse essere al Meazza in quel momento probabilmente scriverebbe un racconto, che risulterebbe comunque meno angosciante di quello Shevchenko là sulla fascia. È defilato, questo è vero, e non ha neppure mezzo compagno in area; sta arrivano Rui Costa ma è troppo poco. Shevchenko ha il corpo leggermente curvo, una posizione innaturale. La palla schizza via veloce da quando il sette milanista se l’è messa tra i piedi, adesso è a una ventina di metri da Buffon. Poi si alza. Shevchenko ha colpito la sfera, collo pieno. Buffon la nota in cielo, la vede perdersi nel buio di Milano e nella luce accecante dei riflettori. Si alza in tuffo, protende il braccio sinistro. La mano di richiamo, la chiamano i telecronisti. Il pallone nella notte milanese si carica di piombo e discende sotto l’incrocio dalla parte opposta da cui è partito il tiro. Shevchenko ancora deve riposizionarsi perché ha colpito forte e quasi in controtempo, quando ormai è passato un lunghissimo secondo dall’addio al pallone è lì che si tira la maglia dalla gioia correndo all’impazzata come ogni volta che fa gol. Il vento di passioni ha fischiato anche stavolta, Milan 1-0 Juventus. Il gol più bello della carriera di un fenomeno, realizzato nel periodo più fulgido di una nobile squadra ridotta ormai in decadenza da un branco di avvoltoi.

L’ULTIMA DANZA – Shevchenko esulta. Si è bevuto Davids, Iuliano, Pessotto e Buffon. Ha messo dentro il gol della vita, ordinaria amministrazione. C’è chi dice che volesse crossare, lui non ha mai smentito. La prodezza rimane: indelebile, balistica e tanti altri aggettivi plurisillabi piacevoli alla pronuncia. In quell’istante è il calciatore più forte del mondo e lo dimostra con un assolo tipico dei grandi artisti, è il vento venuto dall’est che i cuori rossoneri li riscalda invece di infreddolirli. La partita però, anche a causa di un rigore discutibile assegnato da Paparesta, finisce uno a uno. L’immagine migliore di quel gol è targata Gigi Buffon, che dopo il tuffo si rialza e allarga le braccia, verosimilmente bestemmiando. Non è l’ultima fantasticheria di Shevchenko, anzi è solo una delle prima. La più importante è una statistica che serve solo per il tabellino di una finale, una stagione più tardi quando tutto è cambiato. Niente freddo, niente Milano. Nell’afa di una Manchester tutta italiana Sheva batte su rigore proprio Buffon e vincerà la sua prima Champions League. Prima Champions che rimarrà anche l’ultima, sebbene proprio lui avesse potuto cambiare il corso della storia. A un millimetro da Jerzy Dudek, il polacco più inviso ai milanisti, Shevchenko colpirà il volto del portiere del Liverpool in un tre a tre a Istanbul che in molti – compreso Sheva – voglio ormai dimenticare, manco fosse una figuraccia in discoteca o un brutto voto. Avrebbe potuto essere la sua ultima vera folata prima di soffiare, debolmente, a Londra, per antonomasia città della pioggia. Avrebbe potuto anche tornare a spingere quando ormai la maglia era la settantasei, anni dopo, richiamato in rossonero da coloro che il rossonero lo stanno distruggendo. È andato via in tempo per non vedere marcire la storia che aveva contribuito a scrivere in un tempo in cui anche una sconfitta in finale di Champions League era una medaglia all’onore da appuntare sul petto.