Giuseppe Rossi: «Nel mio libro non cito mai la sfortuna. E neanche Prandelli» - Calcio News 24
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2014

Giuseppe Rossi: «Nel mio libro non cito mai la sfortuna. E neanche Prandelli»

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La figura del padre, gli infortuni, il coraggio, la tripletta alla Juve e il Mondiale saltato: a colloquio con Pepito…

C’è una strana voglia di Frank Sinatra nell’editoria sportiva di quest’ultimo anno. Dopo ‘Il meglio deve ancora venire’ di Walter Mazzarri con Alessandro Alciato (che in origine era ‘The best is yet to come’ del grande Ol’ Blue Eyes, anche se in quel caso diciamo che non ha portato benissimo…) ora è il turno di ‘A modo mio (My way)’, uscito da pochissimo per Mondadori ed incentrato sulla vicenda umana di Giuseppe Rossi, desiderio impellente di un football fiorentino (e azzurro) che brama come non mai per la sua salute, le sue invenzioni in campo, i suoi gol.

Pepito l’ha presentato pochi giorni prima di Natale, presso La Gazzetta dello Sport, alla presenza della sua coautrice (Alessandra Bocci della stessa Rosea) e di un pubblico attento che non vedeva l’ora di fargli quella fatidica domanda: Pepito, quando guarisci? Pepito quando ci regali un altro tiro al volo come quello insaccato contro i “tuoi” Stati Uniti nella Confederations Cup del 2009? Pepito quand’è che cloni Pablito, come profetizzò una volta il compianto Enzo Bearzot? «Calma, ragazzi. Mi sto impegnando per riuscirci», il suggerimento che trapela dai suoi occhi velatamente malinconici. E poi le parole: acute, decise, mature. A modo suo.

Come mai questo libro, Pepito?
«Perché volevo raccontare l’uomo e non solo il calciatore. In queste 140 pagine ci sta il mio universo: i momenti belli, quelli brutti. La gioia, la sofferenza. È tutto racchiuso qui.»

Ci sta soprattutto tuo padre…
«Quella è sicuramente la parte più emozionante: papà se n’è andato cinque anni fa ed io, oltre che un genitore, ho perso soprattutto un amico. Quando avevo 12 anni siamo partiti assieme dall’America per andare a Parma (la prima squadra di Rossi, NDR) e lui è restato con me fino all’ultimo. C’è ancora adesso, lo avverto ogni giorno. Ed è per lui, in primis, che sto cercando di uscire da quest’infortunio…»

Tuo papà Fernando sognava di vederti un giorno calciatore, vero?
«Scherzi? Quando avevo due anni, in New Jersey, mi metteva dei birilli di plastica a mò di ostacoli nel giardino di casa e mi diceva: ‘Scartali, Giuseppe, scartali!’. E poi un bel giorno è venuto il momento di diventare professionista: una enorme soddisfazione per entrambi. Sai, a volte si sottovaluta quanto un genitore sia importante per riuscire in questo mestiere. Non è che servano chissà quali sforzi, a volte basta che un padre ti paghi l’assicurazione della macchina o sbrighi una pratica per l’affitto della casa e tu giochi già più tranquillo…»

Capitolo infortuni: quando torni?
«Presto, spero presto perché ne ho abbastanza di essere messo da parte esclusivamente per colpa del mio ginocchio. Voglio giocare e far vedere a tutti che Pepito è ancora bravo. Purtroppo gli infortuni sono cose che capitano in questo lavoro. L’importante è non dimenticarsi mai che la vera guarigione parte sempre dalla testa e non dalle ossa.»

Il momento più entusiasmante della tua storia fino ad ora…?
«Per i tifosi della Fiorentina sicuramente la tripletta che segnai contro la Juventus lo scorso 20 ottobre 2013: loro erano avanti 2-0 grazie alle reti di Tevez e Pogba, poi è venuto il mio turno… (sorride) Quel giorno, uscendo dagli spogliatoi, ho visto gente di 60 anni piangere dalla gioia e cuori viola che esultavano come se la partita fosse ancora in corso e noi avessimo fatto il quinto gol. Momenti da brividi, anche se…»

Anche se…
«Beh, forse il gol che ricordo con più affetto fu uno segnato contro il Real Madrid al Bernabeu quando giocavo col Villareal. Mia mamma era in tribuna e cominciò a urlare di felicità in mezzo ai tifosi dei Blancos! Se non ci fosse stato mio padre a proteggerla non so come sarebbe finita… (ride)»

Ci sei rimasto male che il tuo ex allenatore Alex Ferguson non ti abbia citato nella sua autobiografia? E dire che tu hai giocato (e segnato) per il Manchester United quando avevi 17 anni. E Sir Alex ha sempre avuto un debole per la linea verde…
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Non ho letto il suo libro, ma stimerò per sempre uno come Ferguson. Lui è veramente una persona per bene, magari nel chiuso di uno spogliatoio si trasforma e incomincia ad usare parole forti con i suoi giocatori, però averlo visto allenare, durante i ritiri o le trasferte, è stata una lezione pazzesca ed indimenticabile

A proposito di giovani: cosa c’è che non va nel nostro calcio? Perché tanti Under 21 non giocano e sono costretti ad emigrare?
«Perché siamo sempre alle solite: il compito di qualsiasi calciatore dovrebbe essere quello di divertire il pubblico e segnare tanti gol. Solo che poi subentrano i tatticismi e il gioco da eccitante diventa meditato, troppo meditato… In Spagna è diverso: là si vedono azioni offensive a go go, giocate di fino, colpi di tacco, biciclette ecc. Tanti ragazzi italiani emigrano in altri campionati? Per me fanno solo bene. Sono esperienze che fortificano il carattere e arricchiscono la vita. Se qui da noi non ti fanno giocare, perché non approfittarne?»

Ciro Immobile lo ha fatto, ma – perlomeno in Bundesliga – sta incontrando delle difficoltà…
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Seguo Ciro e sono contento che in Champions League segni con continuità. Certo, la Germania non è un gioco da ragazzi: ti devi abituare a nuovi schemi, a un altro stile di vita. Non è semplice, ci vuole pazienza, ma Immobile ce la farà anche all’estero.»

Sarete tu, Ciro, Zaza e Pellè i “quattro moschiettieri” che ci faranno fare grandi cose agli Europei del 2016? Se chiudi gli occhi, ti si materializza questo bel sogno?
«Se chiudo gli occhi, mi viene sonno! (ride) Mi faccio una bella dormita e poi, domani, sono nuovamente pronto a sudare in palestra. Pur di guarire una volta per tutte

Ultima domanda: e i Mondiali brasiliani saltati? Fatto pace con Prandelli? Dai, che siamo vicini a Natale…
«Quella è acqua passata e difatti dentro ‘My Way (A modo mio)’ non troverai mai citato Prandelli o la seppur minima polemica nei suoi confronti. E poi ho anche evitato di usare la parola ‘sfortuna’: non mi piace, sa troppo di alibi, un vero uomo non dà mai la colpa alla sfiga.»

Pepito Rossi saluta, firma autografi, fa gli auguri a tutti e infine se ne va. A faticare per l’ennesima volta. Se avesse intitolato il libro ‘A Testa Alta’ sono convinto che il suo editor sarebbe stato contento lo stesso.