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Guardiola e Simeone, non ci siamo

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Atletico Madrid in finale, Bayern Monaco ancora a casa: l’analisi

Che quel bellissimo gol di Saul Niguez potesse rivelarsi decisivo nella rincorsa di Atletico Madrid e Bayern Monaco ad un posto nella finale di Champions League lo si era capito. O quantomeno era nell’aria: la banda Simeone l’ha risolta all’andata, non permettendo ai tedeschi di segnare sul proprio suolo. La conseguenza è limpida: troppo ghiotta la chance di impostare la gara di ritorno secondo il copione da sempre recitato alla perfezione, chiudersi in difesa a costo di esser presi a pallonate e trovare un acuto in contropiede.

CARO GUARDIOLA SI – Se chi vi scrive ha un modello calcistico di riferimento, beh, quello si avvicina incredibilmente all’evoluzione del guardiolismo: non il tiki-taka lento ed esasperante, quasi irriverente, delle prime battute del tecnico catalano, quanto questa versione 2.0 alla base poi del recente successo tedesco in quel di Brasile 2014. Un calcio di qualità che ha dimostrato di poter valorizzare le abilità di un centravanti di ruolo, altro che Messi-dipendente, un aggiornamento che ha svincolato Guardiola dai singoli in nome dell’adattamento alle risorse disponibili:  successi o meno – ed il predominio in Bundesliga per tre stagioni consecutive è comunque qualcosa che va messo sul piatto della bilancia, non scherziamo – il buon Pep nell’esperienza al timone del Bayern Monaco si è completato. Ha dimostrato di essere allenatore di mondo e non esclusivamente legato a quella rete antropologica e sociale che è il mondo Barcellona.

CARO GUARDIOLA NO – Poi però tocca essere onesti e da queste parti tutto ci si attendeva tranne che, nel corso di questo triennio, Pep Guardiola non centrasse una finale di Champions League: tre eliminazioni, sempre in semifinale, sempre dalle spagnole che poi si sono aggiudicate il trofeo (se lo faranno anche i Colchoneros). Prima i quattro ceffoni dell’Allianz incassati dal Real Madrid del nostro Carlo Ancelotti, poi la rassegnazione nei confronti degli dei del calcio Messi e Neymar in un incontro/scontro con il passato da film senza lieto fine, infine la sorprendente eliminazione inferta dall’Atletico Madrid del Cholo Simeone. E se le prime due ci potevano stare, questa un po’ meno: sì sfortuna, sì 33 tiri a 7, sì il rigore mancato sull’1-0, sì il predominio, ma si torna a casa e non doveva accadere. Perché, volenti o meno, la mancata finale nel suo curriculum tedesco è una chiazza che non va via con il più potente degli smacchiatori.

L’UOMO DEL MOMENTO – L’idea di base sul modello calcistico di Simeone è già stata proposta e probabilmente può risultare condizionante di ogni successiva considerazione: il tecnico argentino non ha modo di lasciare una reale traccia nella storia di questo sport per una serie di ragioni qui presentate che fungono da divieto di ingresso nel gotha personale di chi ora vi sta scrivendo. Peraltro quella del suo non gioco può al limite essere considerata una mera sfumatura, per chi antepone comunque tutto all’ottenimento dei risultati. Ciò che però non può sfuggire è quell’antisportività praticata ad arte ogni qualvolta occorra per giungere ad un determinato traguardo. O quando, se il risultato non arriva, saltano i nervi: basti ricordare il recente Barcellona-Atletico Madrid di Liga e tenere in debita considerazione quanto accaduto dalla mezzora in poi (caccia all’uomo?) per farsi un’idea delle necessarie implicazioni portate in dote dal Cholismo. Poi ci sono i risultati: due finali di Champions League in tre anni, l’ultima conquistata eliminando le due squadre più forti del pianeta, una Liga strappata ai mostri sacri Barcellona e Real Madrid con un club dai parametri economici differenti (ed è vero, seppur non con le proporzioni che in tanti vogliono far credere), l’Europa League e le coppe minori vinte prima. Fattori che gridano da sé. Incancellabili. Ma la questione del gradimento personale per Diego Pablo Simeone trascende dai risultati: non ne ne esisterebbe uno in grado di alterare una determinata visione del calcio. Dello sport.