Saponara: «Quanti pianti per il Milan!» - Calcio News 24
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2015

Saponara: «Quanti pianti per il Milan!»

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saponara esulta empoli agosto 2015 ifa

Il trequartista dell’Empoli si mette a nudo tra paure e aspirazioni

Riccardo Saponara non è nato fatalista, lo è diventato. Questo in seguito a quanto gli è accaduto dal 2007, quando aveva 16 anni: «Se al mio scopritore Eldo Bencini non si fosse bucata una ruota dell’auto e un amico non lo avesse soccorso e portato al campo dove stavo facendo un provino con la rappresentativa regionale, forse oggi non sarei un calciatore. Mi seguì altre volte, e poi mi portò al Ravenna. Se quando ero al Milan non mi fossi infortunato al ginocchio, non sarei tornato a casa per due settimane a fare la riabilitazione, non avrei visto per tre-quattro sere di seguito Giulia che è di Forlì come me, alla quinta non avrei preso il coraggio per andarci a chiacchierare in un bar e oggi non staremmo insieme. Era destino anche che al Milan andasse così? Non so, ma era uno step necessario della mia carriera e non rinnego neanche una lacrima di quelle che versai. Mi aveva appena preso la squadra per cui tifavo fin da bambino: altro che lacrime sprecate, fra le più sentite della mia vita», ha raccontato il trequartista dell’Empoli ai microfoni de La Gazzetta dello Sport.

AMORE E AMICIZIA – Sono molti i retroscena rivelati dal giovane talento del calcio italiano, che ad esempio ha parlato della sua passione per il pianoforte, che lo aiuta a recuperare le energie dopo gli allenamenti. Ma Saponara ha parlato anche del suo rapporti con i bambini, frutto del suo istinto paterno, ma anche della sua voglia di aspettare di avere un figlio, perché la sua relazione è nata da poco e deve completare alcuni step della sua carriera. Non ci sono i presupposti, insomma. Dall’amore all’amicizia, come quella con Mirko Valdifiori: «Chiacchierate lunghissime in treno: tutte le settimane insieme da Faenza a Firenze, lui già in prima squadra e io in Primavera, lui tornava ad allenarsi e io a scuola. Amico è quello che quando rientri a Empoli dal Milan ti dice “Non andare in hotel, vieni da me” e poi ti viene la varicella e lui finché non guarisci va a stare da sua mamma a Firenze, per lasciarti la casa. Lui è Tonelli, la prova che anche se nel calcio è dura avere amici, perché la concorrenza non favorisce i legami affettivi, l’eccezione esiste: Empoli per questo è un posto davvero surreale». Ma Saponara ha parlato anche del suo rapporto con i social network, che usa per informarsi e per rintracciare amici o conoscenti: «Sa con quanti parenti in Basilicata sono entrato in contatto così, e non sapevo neanche di averli?».

LO SPORT – L’esperienza da scout gli è servita per imparare ad essere autonomo, a prendersi delle responsabilità. Ed è stata utile anche nel calcio: «In campo è come se dovessi guidare un gruppo, crearti una credibilità, devi far sì che i compagni abbiano fiducia in te, dargli la scossa, tirargli fuori il meglio». Il primo approccio col mondo dello sport è avvenuto, però, attraverso il basket: «Io nasco cestista, in prima elementare: si giocava a scuola alle quattro e mezza del pomeriggio, dopo l’ultima lezione, e due anni dopo ci volle Gianmarco, un compagno di classe, per trascinarmi a giocare anche a calcio. Probabilmente sarei diventato un playmaker, di sicuro palleggiavo molto: anche in casa, avevo messo un canestro di plastica in salotto e non so se urlava più mia sorella perché non riusciva a studiare oppure mia mamma perché le sue statuette di ceramica cadevano come birilli, spezzate in 6-7 frammenti, non so quanti tubetti di colla le ho fatto consumare. Dagli 8 ai 12 anni ci fu quasi par condicio: tre allenamenti di calcio e due di basket, poi arrivò il momento di scegliere. Quello che non sono più costretto a fare oggi davanti alla tv: non guardo né calcio né basket, preferisco altro».

L’INVIDIA – Ma Saponara s’è fatto col tempo anche diversi “haters”, nemici, anche insospettabili: «Colleghi di categorie inferiori, oppure persone che mi giravano intorno, soprattutto a Forlì. L’invidia è così, fa brutti scherzi: ti porta a riformulare la realtà, a manipolarla, a mettere in giro voci sbagliate. E visto che ci hanno provato in tanti a macchiare la mia immagine, sono diventato ancora più riservato seguendo i consigli di papà. In campo no, non ho nemici: a settembre Iturra si è un po’ arrabbiato, quando ha capito che Colantuono lo stava sostituendo mi ha ripetuto 3-4 volte “Mi cambia per colpa tua, sei contento?”, ma un po’ rideva anche. Quando Ceccherini del Livorno mi diede una gomitata a palla lontana invece non ridevo molto, ma durò poco: il naso rotto si mise a posto, lui è stato un vigliacco e a quello non si rimedia».

LE PAURE – Saponara ha parlato anche della sua paura, come quella di affogare in Corsica quando aveva 8 anni. Ora ha paura di non realizzarsi calcisticamente: «Mi fa venire l’ansia l’idea di non raggiungere la mia realizzazione calcistica, perché è per forza da quella che passa quella personale. Diventerebbe una condanna, la dannazione di lasciare incompiuto il lavoro per cui penso di essere nato. Chi mi vede da fuori può pensare ad un ragazzo realizzato: sbagliato. Io so di non esserlo e che non mi darò pace finché non lo sarò completamente: realizzato, ma in un grande club. C’ero arrivato, al Milan, però arrivare non basta: se sfiori un obiettivo non l’hai centrato, ecco cosa mi spaventa».

I GENITORI – Saponara, che ha accontentato sua madre e si è diplomato in ragioneria («Alla faccia della professoressa Casadio, l’insegnante di italiano bacchettona e un po’ isterica, che non mi diceva altro: “A cosa pensi ti porterà giocare a calcio?”. La cercherei su Facebook per scriverle due parole, magari dirle che ho seguito i consigli del prof di matematica, Alberto Serra, non a caso allenatore di basket: “Insegui i tuoi sogni”»), ha parlato, infine, del suo rapporto con suo padre, che lo aiutò a non perdere tutto in due momenti bui della sua carriera: «Il primo fu a vent’anni, l’incubo della retrocessione dell’Empoli, due contestazioni: non riuscivo a vedere lontano, il mio gioco era come mi sentivo io, grigio. A papà al telefono dicevo sempre la stessa cosa: “Torno a casa, smetto”. Poi nella finale di ritorno dei play out mi scattò dentro qualcosa, non ho mai capito cosa: forse fu un dribbling riuscito, forse la curva che urlava, ma trovai giocate che neanche sapevo di avere e dentro di me sentii chiaramente che mi aspettava qualcosa di bello. Il secondo momento fu al Milan, il ritornello con papà stavolta era: “Non sono all’altezza”. Psicologicamente toccai il fondo anche più della prima volta: ormai pensavo a come gestire il mio denaro, magari ad aprire un’attività, mi ero convinto che con il calcio non avrei potuto vivere. Ma in cuor mio sapevo che era la mia vita, che ce l’ho nel sangue da quando sono nato: erano pensieri negativi che quasi mi autoimponevo perché non concepivo il fallimento. E la realtà dice che non mi sono arreso».

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