Alessandro Pistone, appuntamento a Liverpool - Calcio News 24
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2014

Alessandro Pistone, appuntamento a Liverpool

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«Guidolin mi diceva: ‘Guarda che il calcio lo capiscono in pochi, ma il giornale lo leggono in tanti’»

A differenza del suo fisico rimasto in forma come ai tempi in cui correva deciso lungo la fascia, Alessandro Pistone ama prendere il resto del mondo per la gola. Merito delle sue squisite piadine che sforna quotidianamente nel suo locale di Milano (il Farinami” di Via Vittor Pisani) a pochi passi dalla centralissima Stazione Centrale. Lo incontro in un primo pomeriggio piovoso come la brughiera, quando la sua clientela abituale è già rientrata malinconicamente in ufficio e lui trova il tempo di accendersi una sigaretta e parlare dei suoi tanti anni da “tenacious footballer” sbocciato Oltremanica. Anni spesi sproporzionatemente tra Italia (il boom repentino nel Vicenza dei sogni di Guidolin e la prima, laboriosa Inter di Roy Hogdson) e Inghilterra (dove Alex è diventato un idolo per i tifosi “Toffees” dell’Everton e un ottimo ricordo per quelli del Newcastle United). Ma anche stagioni di sangue e sudore, per dirla alla Churchill e per via dei ripetuti e lancinanti infortuni a cui Pistone è andato incontro. «Te ne dovrei fare una lista più lunga del menù del mio ristorante, perciò evitiamo», ironizza lui. Ma sì, evitiamo pure. E lasciamoci il “blue” (nel senso di tristezza) alle spalle perché qui c’è da parlare con un vero cuore “Blues”. Con la maiuscola, stavolta.

Partiamo dalla fine: smetti abbastanza presto…
«Sì, a 33 anni ho detto stop al termine di una carriera costellata da tanti, troppi infortuni, anche gravi. Ero arrivato ad un punto che giocavo col serio timore di farmi nuovamente male e questo per la psiche di un atleta non va mai bene. La paura c’era, al contrario della spensieratezza che invece era letteralmente svanita»

Come se ne esce?
«Con la pazienza. Nel 2009, giusto un anno dopo il ritiro, ho sostenuto il corso-base di allenatore a Coverciano e correvo di nuovo come ai bei tempi. Mi è bastato curarmi con calma, senza affrettare il recupero, mettendoci solamente il tempo necessario. Hanno ragione quelli che sostengono che, tra i tanti mali del calcio, i recuperi frettolosi sono uno dei peggiori…»

Tra la tua ultima stagione all’Everton e le misere sette presenze che hai collezionato coi belgi del Mons (campionato 2007/2008), ti è frullato qualcosa per la testa?
«No, il mio unico pensiero all’epoca era strappare un nuovo ingaggio visto che mi sono sentito un professionista fino all’ultimo. Il locale a Milano? Ci sarei arrivato in un secondo tempo, a carriera definitivamente conclusa… (riflette, ndr) Pensa che quando ero in Belgio mi ero anche munito di un preparatore personale per migliorare le mie prestazioni atletiche però, anche lì, il dolore non mi dava tregua. Sai, vedevo compagni che giocavano tranquillamente 70 partite all’anno senza l’ombra di un infortunio ed io che ero spesso fermo ai box. Questa cosa mi ha fatto riflettere non poco…»

La Premier League di quegli anni ti ha arricchito come calciatore oppure – da un certo punto in poi – ti ha pesato non giocare più nell’allora “campionato più bello del mondo”?
«Scherzi? Ringrazierò sempre chi mi ha dato l’opportunità di giocare in Inghilterra perché, dalla seconda metà degli anni ’90, anche per loro è cambiato tutto a livello di professionalità. E poi c’era la faccenda della maledetta moviola: nel Regno Unito non l’ho mai patita mentre qui da noi, finché ho giocato con Vicenza ed Inter, tutte le sante domeniche si gridava per uno scandalo o un complotto…»

Gli allenatori inglesi come ti sono sembrati?
«Onestamente, a livello tattico, non ho trovato persone che mi hanno cambiato la vita: i tecnici italiani, da questo punto di vista, restano di un altro pianeta. Però mi piaceva da morire affrontare l’avversario per novanta minuti e alla fine che vinca il migliore, tanto poi si va al pub. Senza tante menate di mezzo.»

Tra i tuoi tanti mister – oltre a quel David Moyes che avrebbe poi allenato il Manchester United post Ferguson – hai avuto anche Kenny Dalglish durante il tuo primo anno a Newcastle. Com’era lavorare con lui?
«Beh, tra i tifosi del Liverpool Dalglish è tuttora visto come una divinità al pari di Lennon e McCartney… Però con me si è sempre comportato da quella brava persona che è, dote rara tra le cosiddette “leggende” del football britannico. Tra Newcastle ed Everton ho avuto modo di conoscerne tante dal vivo visto che come compagni di squadra ho avuto “Gazza” Gascoigne, Alan Shearer, Peter Beardsley, Ian Rush, ecc. Li ricordo tutti con affetto»

Un anno, al St James’ Park, come allenatore ti ritrovasti anche Ruud Gullit…
«Una pessima esperienza. Guarda, lasciamo stare (fa una lunga tirata con la sigaretta, ndr

Torniamo ai tuoi trascorsi italiani: ti ha ferito la troppa fretta con cui il popolo nerazzurro ti giudicò?
«Ero giovane, presi il posto di un certo Roberto Carlos e sono andato incontro al mio destino… Mettiamola così: ultimamente mi sono rivisto in ciò che è capitato a Davide Santon, un altro ex interista che al momento si sta rifacendo una seconda vita guarda caso proprio al Newcastle! (ride, ndr) Che bizzarra ironia, vero? Sai, quando le cose vanno bene ecco che società, tifosi e stampa hanno pazienza. E quindi largo ai giovani che devono giocare, maturare esperienza, accumulare minuti…»

Poi alla prime due sconfitte di fila…
«Ecco che la solita stampa si scalda e pretende che giochino solo i veterani e gente over 30! Mi spieghi come si può formare un ragazzo di 20 anni in mezzo ad una tempesta mediatica del genere? Diceva bene il mio vecchio tecnico Francesco Guidolin: “Il problema in Italia è che la partita la sanno leggere in pochi, ma il giornale lo sfogliano in tanti”. Un aforisma perfetto, il suo, che non merita ulteriori spiegazioni»

Tu sei arrivato all’Inter lo stesso anno di Javier Zanetti, giusto a pochi mesi di distanza da “Pupi”. Una vicenda, la vostra, quasi alla “Sliding Doors”
«Beh, una carriera come quella di Zanetti è una cosa estremamente rara visto che il calcio, da sempre, è un mercato e la meritocrazia è una lingua poco parlata. Però, già in quel 1995, si vedeva che Javier sarebbe diventato un campione; sarà difficile trovare bandiere simili andando avanti così»

A proposito di futuro, tu hai dei piani da sviluppare?
«A me piace allenare i giovani e l’ho pure fatto, l’anno scorso, con la Berretti del Varese. Adoro impostare la parte tattica, quindi mi vedrei bene a gestire la Primavera di qualche squadra oppure qualche team di altre categorie. Chi lo sa, magari un giorno…»

Rileggendo la tua carriera, hai dei sassolini dentro la scarpa?
«No, anche se il mio unico rammarico resta sempre quel dubbio irrisolto: e se mi fossi infortunato di meno? Se avessi patito traumi meno gravi? Boh, in fondo giocavo nell’Inter di Moratti, nel 1996 sono diventato campione d’Europa con la Under 21 di Cesare Maldini, all’Everton ho vissuto degli anni magici…»

Un po’ più di culo, dunque?
«Lungi da me lamentarmi per ciò che ho ottenuto… però quello serve sempre! (risate, ndr

“Tempi Supplementari” vi augura un felice 2015 e vi dà appuntamento alla prima settima dell’anno nuovo quando parleremo col dentista Domenico Volpati. Un vero jolly di centrocampo (come si diceva allora) cresciuto nel Torino e che vinse lo scudetto da protagonista (a 34 anni!) nel magico Verona di Osvaldo Bagnoli. Un’altra bella storia che, secondo noi, merita di essere raccontata.

Rubrica a cura di Simone Sacco (scrivi a: calciototale75@gmail.com)