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2015

Suonala ancora, un’ultima volta

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Gli ultimi gol europei di Filippo Inzaghi: il miracoloso 2-2 tra Milan e Real Madrid del 2010

Si agita, batte i piedi in terra. Ma al tempo stesso è pensoso, mentre guarda la porta sotto la Curva Nord – ma forse non la guarda nemmeno, la scruta come farebbero certi navigatori nei romanzi che hanno fatto la storia, consapevole che anche lui potrebbe scrivere pagine importanti. Le telecamere lo inquadrano mentre, preda della solita adrenalina, ha la testa appoggiata sul palmo della mano ed è girato verso sinistra, la sua sinistra, e qualche impercettibile ruga gli fa da contorno agli occhi. I capelli, tirati all’indietro da una passata elastica, sono sempre gli stessi da più di trent’anni, nemmeno un pelo bianco alla faccia della carta d’identità. Ha più di trentasette anni – trentasette anni passati a segnare su tutti i campi, a mangiare bresaola o plasmon e a riempire di reti un Camp Nou o un Garilli qualsiasi, democratico nella scelta delle sue vittime ma sempre attento a scegliere la sera giusta, la serata di gala, europeo prima delle politiche di stampo europeo, in anticipo sui tempi prima che sui difensori. La maglia rossonera è sempre la stessa, cambiano i font e i template, gli sponsor e le patch, ma il numero nove sulle spalle è indelebile. Solo che mentre è lì in panchina a fissare la porta, il nove non si vede. Il nove è coperto da una tuta, che troppo spesso ultimamente porta indosso pur senza lamentarsene; in campo vanno quelli più giovani, vanno i sette o gli undici o gli ottanta. I nove no, i nove aspettano. Filippo Inzaghi il nove ce l’ha tatuato sulla pelle più che impresso sulla maglietta e basta un semplice gesto per far ribollire migliaia di tifosi, basta che quella maglietta – la numero nove, quella del bomber, quella di La Coruña o di Monaco, quella di Atene, quella contro l’Ajax – la faccia vedere, la mostri a San Siro e in mondovisione. Basta che si tolga la tuta e finalmente faccia risplendere il rosso e il nero del Milan. E poco importa se lo fa quando le primavere sono trentasette, i minuti sessanta e il risultato dica uno a zero per il Real Madrid. Filippo Inzaghi ha una sola musica in testa, una sola canzone, e stasera ha deciso che la suonerà ancora. Forse meglio delle altre volte.

LA CADUTA DEGLI DEI – Gli anni passano e si accumulano così come i luoghi comuni e le frasi fatte. Cambiano gli allenatori, cambia il gioco e cambiano le stagioni. Cambiano le ere e quindi i cicli, il Milan ne sa qualcosa. Un po’ come certe famiglie nobiliari che hanno perso lustro nel Dopoguerra, il Milan ha attraversato il finire degli anni Ottanta e tutti gli anni Novanta assestandosi appieno nell’élite del calcio di sempre. È entrato nei Duemila riuscendo a rialzarsi dopo una breve e tenue flessione e in Italia, in Europa, nel mondo, il rossonero è ancora sinonimo di vittoria. Nel 2010 però gli anni belli di Capello e Sacchi sono un ricordo lontano, quelli di Ancelotti più recenti ma comunque ancora troppo vicini per apprezzarne la nostalgia e il Milan vivacchia in attesa di una svolta. Un po’ come d’estate quando ci si mette alla finestra e si guardano – o si ascoltano, ma comunque ne siamo spettatori – i fuochi d’artificio di alcune feste paesani. Grandi botti, grida di acclamazione, perché i fuochi artificiali sono sempre sinonimo di spettacolo. Dapprima vengono sparati tutti assieme e il cielo scuro notturno si riempie di colori, talvolta di trame impensabili che rischiarano l’ambiente e chissà magari scaldano un po’ gli animi. Poi però i rumori dei botti si diradano sempre più fino a farsi sempre più sparuti, in attesa che arrivi l’ultimo, quello finale, per poi rientrare in casa e ripensarci un po’ – ancora per poco – perché quei fuochi d’artificio sono piaciuti eccome. Il Milan nel 2010 vive in quel limbo da fuochi artificiali, ne ha sparati tanti, tantissimi, e ancora non sa o forse non capisce quanti ne siamo rimasti a disposizione. Di sicuro nel novembre 2010, in pieno autunno e quindi periodo poco indicato per le sagre o le feste di paese, è il Real Madrid che cerca in maniera prorompente di spegnere ogni miccia sul nascere. A San Siro dopo quarantacinque minuti di una comune partita di Champions League, una classica tra una squadra in declino e una in ascesa – quindi nell’esatta convergenza storica -, il Real Madrid è avanti uno a zero.

NOVEGonzalo Higuain è un altro giocatore che potrebbe vestire la maglia numero nove ma per uno strano scherzo del destino, e delle leggi della Liga, ha indosso la venti. Il cronometro del Meazza segna quasi quarantacinque minuti quando Angel Di Maria recupera un pallone sulla destra e, mancino, deve accentrarsi per creare un’azione pericolosa nella trequarti difensiva del Milan. Il centrocampo rossonero, andato in pressione sulla difesa delle merengues, è staccato dalla linea di difesa e lo spazio che si viene a formare tra i reparti è un’autostrada per il successo per Di Maria. El Fideo, lo spaghetto, fa proprio come gli spaghetti che si avvinghiano ai rebbi della forchetta e sguscia via facendo filtrare una palla delicata per Higuain, nove solo in teoria ma non di fatto. Alessandro Nesta, sempre un bel po’ avanti agli altri per diritto di nascita, stavolta è un metro troppo indietro e il Pipita ne approfitta. La freddezza con cui stoppa la sfera e batte Abbiati farebbe di lui un bomber degno di quel tanto agognato numero. Il Milan è sotto, e finalmente verrebbe da dire visti gli innumerevoli tentativi dei Ronaldo o degli Alonso o degli Özil. Il Diavolo è spento e rientra in campo più passivo che mai, con il signor Zlatan Ibrahimovic davanti in serata no – e gli accade spesso di farsi piccolo nelle notti grandi, mentre i due compagni d’attacco brasiliani sono uno troppo leggero e l’altro troppo pesante, in senso fisico e metafisico. Al sessantesimo minuto succede che lo sguardo di Inzaghi, finora puntato sulla porta sotto la nord con un sentimento di ansia e di voglia di fare che lo hanno caratterizzato per tutta la sua carriera piena di gol e di linee difensive uccellate e di geometrie riscritte per intero, si sposta sul terreno di gioco. La tuta non c’è più. Nella notte novembrina di Milano, fredda ma non eccessivamente – non una di quelle sere in cui, per dire, Cafu avrebbe giocato con guanti e mezze maniche -, Inzaghi fa brillare sotto i riflettori il rosso della sua divisa e, contravvenendo alle leggi cromatiche universali, c’è chi giura di aver visto luccicare anche il nero profondo della maglia del Milan.

IL PRIMO – Quarantatré secondi, nemmeno un minuto: Inzaghi non tocca neanche un pallone ma il Milan in questo lasso di tempo brevissimo – tra un discorso e l’altro non si beve nemmeno un caffè in quarantatré secondi – cambia faccia e anima, sospinto da un San Siro sospinto a sua volta da una spinta di Inzaghi su Xabi Alonso e da una protesta vibrante verace e sincera dello stesso Inzaghi all’arbitro Webb, per niente intimorito dal fisico da wrestler del direttore di gara. Perché Inzaghi in quarantatré secondi è già diventato il respiro del Milan, il cuore e il cervello di quella squadra fin lì sbandata e memore di un passato gaudente e distante. Anche quello Zlatan Ibrahimovic sembra cambiato senza Ronaldinho accanto, e lo dimostra al minuto numero sessantasette. Quello che succede in quell’attimo è la summa della vita di Inzaghi, qualcosa di straordinariamente brutto e al contempo straordinariamente utile se non vitale. Su un lancio di Pirlo c’è Pepe che dorme – ed è normale, è uno dei giocatori più sopravvalutati di sempre – e Ibrahimovic agguanta il pallone uncinandolo in corsa e dirigendosi al vertice basso dell’area del Madrid. C’è solo Inzaghi in mezzo ma Ibra non è in serata di grazia e ciabatta un cross a mezz’aria indirizzato più in porta che a Superpippo. E qui c’è qualcosa in grado di cambiare la storia e fare la differenze. Alle volte è il destino e un portiere può sbagliare un’uscita facendosi trovare troppo fuori porta; alle volte è il fato, e capita che un difensore si fidi troppo del portiere e non segua a dovere il centravanti da marcare; altre volte, e quella sera a Milano è una di queste altre volte, è solo Filippo Inzaghi, che sfrutta l’errore del portiere e a mezzo metro dalla linea di porta colpisce di testa sbagliando anche la scelta di tempo e tirando solo quando il pallone è in discesa. Il boato di San Siro anticipa la rete dell’uno a uno. Pippo l’ha suonata ancora quella canzone, che potrebbe essere Zadok The Priest – composizione di Händel utilizzata nel 1992 da Tony Britten per l’inno della Champions – ma in realtà non ci sono soprani o archi o violini, solo un Pippo Inzaghi segna per noi che scuote il cielo milanese.

IL SECONDO – Sessantasette: il minuto del gol. Sessantanove: i gol europei di Pippo, che con un’altra rete supererebbe finalmente Gerd Müller tra i marcatori nelle coppe continentali. Settantasette: la definitiva per quanto estemporanea, rinascita del Diavolo, sotto le forme del nove, di Filippo Inzaghi. Succede che il Real Madrid a tredici dalla fine commetta uno sbaglio enorme e decida di lasciar impostare Gattuso – in un momento in cui anche Gattuso diventa Gerrie Mühren. Altro errore, lasciare libero Inzaghi. È in fuorigioco, ma per lui la linea difensiva è sempre stata qualcosa di astratto, una bazzecola per riderci su. Potrà mai una linea immaginaria fermare un uomo? Domanda retorica esige risposta retorica, che si trasforma in pratica se si parla del bomber di Piacenza: no, non può. E così la palombella di capitan Gattuso supera Marcelo, vola sulla testa di Ramos e cade lì, oltre la linea fittizia, nel terreno in cui il guardalinee – mestiere che può essere remunerativo sia per i soldi che per la fama, ma diventa terribile se si aggira da quelle parti Super Pippo – dovrebbe, a regola, alzare il braccio munito di bandierina. E invece l’elastico, l’andirivieni di Inzaghi, il suo corpo curvo proteso verso la palla, sulla palla, nient’altro che la palla e la porta dove metterla, ecco, tutto questo, mandano in crisi la difesa di quello che dovrebbe essere il club più forte del mondo e anche una delle terne arbitrali a regola migliori di tutto il globo. Lui, a trentasette anni e quasi all’età della pensione, si trova a dover decidere una partita che sembrava persa e a scrive un record, l’ennesimo, mentre in quegli istanti di pura follia calcistica uno stadio e un popolo aspettano con trepidazione la morale di quel caracollare inzaghiano verso Casillas. Il portiere paura non ne ha e esce, temerario e ribelle verso una difesa troppo alta. Nemmeno il tempo di decidere di prendere il pallone – di pensarlo – che Inzaghi tocca con la punta e manda lemme lemme la palla al di là della linea, per la settantesima volta da quando è nato e ha iniziato a girare l’Europa dominandola con gol di faccia e scatti imperterriti oltre l’ultimo difensore. Due a uno Milan, è finita.

PEDRO LEON – Se questa storia avesse un lieto fine non varrebbe nemmeno la pena di raccontarla. Perché il Milan, sotto i flash dei fotografi che acriticamente hanno spostato l’obiettivo da un certo CR7 a un FI9, la partita non la vince. Sulla panchina del Real Madrid siede il volpone che fino a pochi mesi prima lavorava a Milano ma non per il Milan, vinceva a Milano ma non con il Milan, faceva innamorare Milano ma non il Milan. E il volpone mette in campo un carneade col nome calzante solo per una qualsivoglia serie tv spagnola con le risate registrate e i colori forti. Pedro Leon entra a San Siro a dieci minuti dalla fine e all’ultimo istante, quando rimane fiato in bocca solo a Webb e tutto San Siro vorrebbe, mai come allora, sentire il triplice fischio, segna. Palla persa da Seedorf, pallone in verticale per Pedro Leon, tiro non irresistibile, Abbiati sbilenco e due a due. La panchia del Real Madrid esulta consapevole di aver strappato un punto al Milan più Milan degli ultimi cinque anni di storia e il Meazza diventa un unico grande silenzio. Al centro del campo a partita finita Filippo Inzaghi si prende gli abbracci dei compagni e degli avversari, ma soprattutto dei suoi tifosi, i quali lo hanno amato fino a quando non ha deciso di mettersi in panchina ma come allenatore – quella è un’altra storia, brutta e da dimenticare. Händel, o forse Britten, risuona per l’ultima volta nei tre anelli milanesi. Inzaghi è lì, mesto e un po’ ramingo, indeciso se festeggiare la serata di grazia o incavolarsi per quel due a due regalato a un passo dalla gloria. Quella però rimarrà per sempre la sua ultima grande notte europea perché le bizzarre scelte di un allenatore filiforme e aziendalista lo faranno prima marcire in panchina e poi lo costringeranno al ritiro in un Milan – Novara di quasi due anni dopo, quando il suo Milan vincerà davvero con un suo gol decisivo a cinque dalla fine. In un giorno in cui piansero tutti e le lacrime – quelle lacrime piene di successi, di gol, di amarezze condivise come in qualsiasi storia d’amore – devono ancora essere asciugate dal prato verde di San Siro.