2009
Inter, Cordoba: “Quando vinci il tempo vola…”
Edizione speciale de “I Signori del Calcio” dedicata ai record di Ivan Ramiro Cordoba: scenendo in campo oggi a Parma, infatti, il difensore colombiano raggiunge le 209 presenze in seri A e le 409 complessive in nerazzurro.Cordoba, 409 partite con la maglia dell’Inter, basterebbe questo numero per identificarla come un Signore del Calcio…
“Grazie. A volte non ci si rende conto, mio papà mi dice ‘Ivan sei arrivato a questa partita, non ti manca tanto per arrivare a quella cifra’, ma io non faccio mai calcoli, non ci penso. à? lui a dirmi quando sono vicino ad un traguardo importante come il prossimo cui vado incontro. à? un grande onore”.
Cordoba è arrivato all’Inter nel ’99 e ha esordito nel 2000. Questi 10 anni sembrano volati…
“Sì è così. Sono passati molto in fretta, forse quando si vince passa tutto più in fretta rispetto a quando non si vince. Gli altri anni era una sofferenza e ogni anno sembrava di averne giocati due, era molto dura. Invece quando vinci passa ttto così in fretta che non te ne rendi conto”.
Dall’esordio con l’Inter al periodo attuale fatto di successi, com’è cambiato Ivan Cordoba nell’approccio al suo essere calciatore, uomo simbolo della squadra, è maturato come persona come sei maturato? Come sei cambiato anche?
“Credo che come persona uno cambi cercando di essere sempre migliore, ugualmente come giocatore. Come persona mi aiuta tanto la mia famiglia, loro sono la mia forza, la base per costruire qualcosa di grande a livello personale. Ho un grande appoggio da parte loro, sostegno per quello che faccio sportivamente. Come giocatore credo di essere maturato tanto, l’esperienza di tutti questi anni mi ha dato anche un’altra visione del calcio dentro e fuori. Questo è l’Ivan Cordoba che si trova dopo 10 anni di Inter”.
Ha tracciato una linea di confine tra l’Inter che non vinceva, e poi abbiamo scoperto anche perchè, e l’Inter che ha iniziato a vincere perchè il primo trofeo del ciclo l’ha sollevato proprio Cordoba.
“Ho avuto questa fortuna in un momento nel quale il nostro capitano, Javier Zanetti era impagnato con la Nazionale, da lì è cominciata questa striscia di trofei e sono stato molto orgoglioso di aver avuto la possibilità di alzare il primoi, però speravo che non fosse l’ultimo pensavo a Zanetti, lui avrebbe dovuto alzarne altri, lo meritava più di me”.
Quando, nel 1993, ha iniziato giocare in Colombia come vedeva la sua carriera in prospettiva, era un sogno, una scommessa? Era ancora legato, come direbbero Zanetti e Cambiasso al tuo protrero, al posto in cui avevi iniziato a giocare.
“Sì, come dicono loro, al potrero. Non esagero nel dire che era impossibile spingersi con l’immaginazione al di là del sogno di conquistare un posto in Nazionale, di arrivarein una prima squadra o di giocare in serie A. Pensi allla grandissima concorrenza, vedi i tuoi compagni più forti di te e dici a te stesso ‘sarà molto dura’. Però sappiamo che nel calcio molte volte ci vogliono tante cose insieme per riuscire a emergere, io ci ho messo tantissimo, di tutto sono riuscito ad arrivare con la voglia di continuare a lavorare, mi allenavo in orari in cui gli altri risposavano, cercavo di migliorare sempre e così sono riuscito a fare la differenza. L’immaginazione però arrivava solo fin lì, non pensavo neanche all’estero o ad andare in Argentina, pensavo solo ad avere una possibilità piccola di dimostrare qualcosa ad alti livelli”.
à? vero che Cordoba sarebbe potuto essere anche un attaccante prima di diventare difensore?
“Forse, se avessi continuato a fare gol… ”
Calciava anche i rigori ad un certo punto della sua carriera.
“Lo facevo al San Lorenzo. Quando ho cominciato da ragazzino per 5 o 6 anni ho fatto l’attaccante, la punta: palla lunga, velocità e tanti cross. Così abbiamo vinto un trofeo che inseguivamo da tantissimo tempo. Poi non ho più fatto gol e hanno iniziato ad arretrarmi: centrocampista, terzino e alla fine centrale”.
Le è dispiaciuto un po’? C’era gusto a far gol, era innamorato del ruolo di attaccante?
“Mi piaceva tantissimo, però credo che a quell’epoca ci divertiva, passavo momenti belli con i compagni, pensavo solo alla gioia della vittoria e non riflettevo oltre misura alla tattica. Durante la partita avevo tante occasioni per segnare, avanzavo sui calci d’angolo, sulle punizioni, però ho assunto bene la mia posizione di centrale, mi sentivo bene e da quel momento avevo già impostato la mia testa per quello”.
à? stato Oscar Ruggeri a formare Cordoba come centrale, che ha deciso di scommettere su quel ruolo? à? stata la figura più importante?
“Sì. Quando lui arrivò al San Lorenzo Almagro io lo conoscevo già perchè era venuto a vedere le partite e aveva giocato lì. Quando è arrivato io giocavo più come terzino con il Coco Basile e lui mi disse: ‘Ivan, tu devi giocare come centrale, ora ti metto in campo e per me sei centrale, questo non lo cambierà nessuno, devi fare quello che sei abituato a fare nella tua Nazionale, che facevi anche al Nacional de Medellin e hai tutta la mia fiducia, quindi non avrai problemi’. Ho giocato in quel ruolo per 6 mesi, sono andato molto bene, ho segnato tanto su rigore e proprio in quel momento sono venuti degli osservatori nerazzurri a vedermi per due volte, una a metà anno e alla fine del campionato. Dopo la seconda, hanno deciso di prendermi”.
Dopo l’esperienza con il Deportivo Rionegro ed il Nacional Medellin è andato in Argentina. Ha sofferto un po’ per il trasferimento?
“L’inserimento è stato duro perchè il metodo di allenamento era totalmente diverso: in Colombia c’è un metodo di allenamento non così efficace, anche se si lavora tantissimo. Sono andato in Argentina, mi allenavo una volta al giorno mentre in Colombia due o anche tre volte al giorno, forse per una sorta mancanza di fiducia nelle capacità dei giocatori. Si facevano allenare i giocatori alle 9 del mattino, poi a mezzogiorno li facevano venire solo per controllare che non fossero in giro a fare altro e poi ancora al pomeriggio”.
Questo potrebbe servire qualche volta…
“A qualche giocatore forse, ma in Argentina, ad esempio, si lavorava tantissimo, in un modo molto intenso, ma una volta al giorno. I primi mesi a me andava benissimo: mi allenavo al mattino, con un tipo di lavoro al quale non ero abituato perchè non l’avevo mai visto fare, poi andavo in albergo e chiedevo alla reception del ghiaccio perchè avevo dolore in tutto il corpo e mi sdraiavo sul letto. Avevo un male che non avevo mai provato però mi ripetevo che non potevo mollare, mi dicevo ‘devo fare la differenza, devo continuare’. Quel tipo di lavoro mi è servito, mi ha aiutato fisicamente come anche quello che ho potuto imparare dai miei allenatori e compagni”.
Incontri importanti nella vita: Pezzotti, Angelillo. Tutti e due decisivi.
“Angelillo è stato più dietro le quinte, nascosto, non voleva farsi notare e questo l’ho saputo qui. Con Pezzotti ci siamo visti le due volte che è venuto a visionarmi, siamo andati a mangiare insieme: una persona molto per bene, mi ha fatto una grandissima impressione, lo sento ancora ogni tanto e da lì è iniziata questa avventura”.
Come è stata la sua sensazione quando è arrivato in Europa, all’Inter. Sono passati 10 anni, ricordando quegli inizi qual è il ricordo di Cordoba?
“A livello calcistico fu una bellissima impressione, non ho sofferto tanto come quando arrivai in Argentina. Questo mi ha aiutato, fare il ponte Argentina-Europa mi è servito. Ho sofferto la situazione con mia moglie che era un po’ a disagio perchè era incinta di 3 mesi di Paloma, la nostra prima figlia, e non voleva mangiare, non si sentiva bene, qui faceva freddo, alle 4 del pomeriggio era già buio.
Però, dopo il primo periodo, siamo stati benissimo. Mia moglie mi è sempre stata vicina, anche lei come me non voleva mollare”.
Qual è stato il compagno con cui si è trovato subito bene, che le ha dato una mano per inserirti?
“Zanetti mi ha dato una grandissima mano, mi prendeva in disparte e mi diceva ‘Ivan devi fare così, qui facciamo così…’. Mi chiedeva se avessi trovato casa, se fossi ancora in albergo e quando ero lì cercava di portare me e mia moglie fuori a cena; quando vedeva che non riuscivo a trovar casa mi diceva ‘vieni da me, stai lì, così stai tranquillo, intanto continui a cercare, ma almeno tua moglie starà meglio, così quando siamo in ritiro, le donne si fanno compagnia’. Lui è stato molto importante, non per imparare la lingua italiana però (ndr.: sorride): parlavano sempre spagnolo e mi ha fatto fare più fatica nell’imparare. Alla fine ce l’ho fatta, non parlo la votra lingua benissimo, ma mi faccio capire. Per me lui è stato molto importante, non solo in quel momento ma in tutti questi anni, l’ho sempre visto come un esempio da seguire”.
Qualche anno prima del successo della Colombia in Coppa America, c’era stata una vicenda che vi aveva riguardato molto da vicino per l’impatto motivo: la morte di Escobar. Come ha vissuto da colombiano quella vicenda e come l’ha poi trasferita nella vita di tutti i giorni, anche in un successo sportivo importante, il primo dopo quell’episodio?
“Ogni volta che si pensa ad Escobar, si pensa ad un simbolo del nostro calcio, che è andato a giocare e non è più tornato. Nessuno pensava che qualcuno gli avrebbe fatto del male, quindi quando è successo la notizia è arrivata di notte e mio papà , che dorme con la radio accesa, l’ha sentito. Nessuno ci ha creduto in quel momento, tutti credevano che lo avessero scambiato con qualcun altro. Purtroppo come è successo ad Escobar è successo anche ad altri miei ex compagni di squadra con i quali giocavo da piccolo. à? una cosa che non si deve dimenticare, non si può continuare così, in Colombia dobbiamo essere più tolleranti e avere tanto rispetto. à? qualcosa che ci porteremo dietro per sempre, vogliamo anche però dare un significato positivo a quello facciamo dicendo che in Colombia c’è tantissima brava gente e sono pochi i cattivi”.
Anche per questo ha deciso di creare con sua moglie la vostra fondazione, che è poi diventata un marchio di solidarietà . Fino ad arrivare alla nave, chiamiamola così, ‘esperanza’, il passo successivo. à? anche quello che l’ha spinto a fare tutto quello che fa nel suo quotidiano?
“Sicuramente, credo che tutto abbia inizio da questa problematica che c’è in Colombia, dove tutti sicuramente vogliamo la pace. Parte da quello e arrivano i problemi per tutte quelle persone cacciate dalle loro terre. Io e mia moglie un po’ di anni fa, prima della fondazione, mandavamo già aiuti come ambulanza, vestiti, cibo però dopo un po’ abbiamo voluto creare una fondazione per coinvolgere più gente in Colombia ed in Italia. Questo è già il quinto anno e devo sottolineare che il 90% dell’aiuto viene da parte degli italiani, quindi io ringrazio tutti e per poter continuare con il nostro lavoro, cioè quello di dare mangiare ai bambini che frequentano scuole molto povere, aiutare con il progetto della barca ospedale, una barca attrezzata per fornire servizio medico in luoghi dove non si riesce ad arrivare in auto, dove magari popolazioni indigene vedono per la prima volta un dottore. Poi altri progetti che riceve mio papà , analizziamo e cerchiamo di aiutare soprattutto i bambini”.
In quei giorni della vittoria con la Colombia disse che nella vita non bisogna mai avere paura di sognare perchè niente è impossibile. Ci eri riuscito con la sua Nazionale, ci sta riuscendo con la sua fondazione, però in quegli anni 2001, 2002, non si riusciva a vincere con l’Inter. Perchè non si riusciva a vincere nonostante i vostri sacrifici e quelli del presidente Moratti? Cordoba che cosa pensava di quella situazione?
“Sorgono dei dubbi, ci si chiede che cosa manca. Noi eravamo consapevoli di impegnarci e di dare sempre il massimo. C’erano tanti campioni in squadra e ci chiedevamo come fosse possibile non riuscire a vincere. Spesso parlavo con Zanetti e gli chiedevo, avendo molta meno pazienza di lui, ‘Javi perchè non riusciamo a vincere se ci impegnamo e il nostro è un buon gruppo?’ e lui mi rispondeva ‘tranquillo che il lavoro prima o poi paga’. Anche se sono una persona che ha fede, avevo tanti dubbi, lui avendo più esperienza mi ha sempre rincuorato”.
In quegli anni, parlando con Giacinto Facchetti e Massimo Moratti, le è mai capitato di sentirsi in difficoltà perchè non arrivavano le vittorie e di essere dispiaciuto vedendo due persone molto tolleranti che consolavano sempre il gruppo?
“Con loro ci si sentiva a disagio quando si discuteva delle situazioni delle squadra. Si cercavano sempre delle motivazioni che andassero al di là della sconfitta, noi assicuravamo di essere motivati e di voler dare il massimo. Ci trovavamo di fronte a persone con grandissimo buon senso che comprendevano la situazione. Per noi giocatori, Facchetti e Moratti sono sempre stati come dei genitori. Quando il presidente ha dovuto sgridarci, infatti, lo ha fatto sempre nel momento giusto. Non gli manca, come pensano tanti, il carattere, quando è necessario lo sa mostrare molto bene, quando è il momento giusto. Però ha una caratteristica unica: quando qualcuno di noi era consapevole di aver sbagliato e ci si aspettava solo una sgridata, lui arrivava e ti dava una pacca sulla spalla dicendoti che avevi la sua piena fiducia. Questo valeva per tutto il gruppo. Ci assicuravano di avere fiducia in noi, nell’allenatore, ci dicevano di pensare solo a fare il nostro lavoro che sarebbe arrivato il momento per festeggiare. Quando parlavano così ognuno di noi usciva dalla riunione ancora più responsabilizzato. Sono d’accordo con questo modo di fare, perchè ci si sente più motivati e in debito verso il club. Così faceva lui e continua a fare, e così faceva anche Giacinto”.
Le vittorie che sono arrivate successivamente vi hanno fatto dimenticare giornate come il 5 maggio. à? un po’ meno vivido il ricordo di quella data?
“Credo di sì. Prima, ogni volta che si toccava quel tasto, faceva molto male, piano piano siamo riusciti però a cancellare quel famoso 5 maggio. à? normale, le vittorie ti portano a cancellare tutte quelle cose, ti danno più sicurezza e credo che i tifosi abbiano capito bene la situazione di quel momento e quella di adesso”.
Il sole durante i festeggiamenti di Siena? La pioggia di Parma? Quale tra gli scudetti vinti in questi anni è la fotografia che Cordoba andrebbe a sostituire con quella del 5 maggio?
“La fotografia di Siena, è stata molto bello”.
Negli spogliatoi arrivavano messaggi e telefonate continue…
“Sì, era impressionante. Io chiamai subito mia moglie, volevo sentire le bambine. Poi era un traguardo così atteso, da tanto tempo. Un’altra bella fotografia è la prima Coppa Italia, arrivata dopo 7 anni senza vittorie. Il presidente disse che forse era stato un festeggiamento troppo bello, sembrava come se avessimo vinto la Champions League, ma era comprensibile, perchè ci toglievamo un grosso peso. à? stato un trofeo importante soprattutto per quello che è arrivato succesivamente perchè abbiamo dimostrato di essere una grande squadra”.
Il rimpianto è che Giacinto Facchetti possa godere le vittorie di questi anni solo dall’alto. “Il presidente prima di Siena ci aveva chiesto di vincere per Giacinto e anche quella è stata una grossa motivazione”.
Vincere aiuta a vincere? Quanto sete di successo ha l’Inter attualmente?
“Tanta. Non vorremmo mai lasciare questo momento perchè si dimentica in fretta com’era non vincere. Non ci penso neanche ad arrivare a fine anno e non vincere. Prendo sempre come modello i grandi giocatori; tempo fa ho sentito ad esempio un’intervista a Paolo Maldini, gli hanno chiesto come facesse ad avere sempre grandi motivazioni e lui ha risposto che noi calciatori scendiamo in campo per quello, non per arrivare ultimi, e quindi non mi stancherò mai di vincere”.
Passiamo in rassegna tutti gli allenatori di Ivan Ramiro Cordoba. Dal primo a Mourinho, come sono i suoi ricordi?
“Da ognuno sono riuscito ad imparare qualcosa, anche non positiva che ha comunque arricchito la mia esperienza e mi ha aiutato ad avere una visione diversa. Sono arrivato con Lippi in una grandissima squadra, non avuto dubbi sulla decisione di venire qui all’Inter o meno. Lui mi ha dato molta fiducia, mi ha fatto giocare sempre, tatticamente era molto capace e lo è ancora, ma i risultati non arrivavano ed è andato via. Poi c’è stato un periodo poco positivo con Tardelli, forse il nostro periodo più difficile nel quale siamo anche arrivati a lottare per non retrocedere, una cosa che ha toccato talmente tanto i nostri tifosi che ha portato a contestazioni come quella delle sedie lanciate dal secondo anello”.
à? il momento forse più basso della storia recente…
“à? stato un periodo molto difficile, ma si tratta di momenti che comunque aiutano ad essere più forti, ad affrontare quello che arriva. Cuper aveva preso in mano una squadra poco ordinata, anche come gruppo, non giocavamo bene e lui ha iniziato a costruire l’Inter di adesso. Zaccheroni, poi, un allenatore molto tattico, ci faceva vedere tanti video delle partite per rimediare agli errori. Mancini ha saputo gestire un gruppo forte e, a differenza di Cuper che aveva costruito un gruppo forte e che non ha vinto nulla nonostante lo meritasse, ha avuto la fortuna in un momento molto importante e decisivo del calcio italiano, e poi è stato bravo a saper gestire le motivazioni e il gruppo per continuare a vincere. Ora con Mourinho tutti sappiamo di dover continuare a fare bene e tutti pensiamo che sarà lui a farci fare il salto di qualità per riuscire a vincere quello che aspettiamo tanto, la Champions League. Piano piano il gruppo diventa sempre più forte e questa è la cosa più importante”.
Con l’infortunio di Inter-Liverpool ha avuto paura di non riuscire a tornare ad essere il Cordoba di sempre?
“La paura arriva quando guardi la tua gamba che è la metà dell’altra ed il ginocchio ti fa molto male, pensi ‘come farò recuperare quello che avevo prima’, però io, in quel momento, pensavo alla situazione del mio ex compagno Maxwell: lui aveva avuto un infortunio più grave del mio e vedevo che giocava così bene, che stava bene, magari non l’ho mai detto a lui, ma quello mi ha aiutato tantissimo. Lo guardavo e mi dicevo he ce l’avrei fatta anch’io. Ho iniziato a lavorare e pian pian il ginocchio mi ha dato la possibilità di giocare quasi ai tuoi livelli”.
Come sta vivendo questa fase della sua carriera? Accetta il fatto di giocare con meno continuità o non si perde mai di vista l’obiettivo di far cambiare idea al mister?
“Si accetta e non si accetta. à? un rispetto per gli altri compagni che magari giocano poco, bisogna accettarlo perchè fai parte di una squadra importante e sei lì per dare qualcosa in più. Nel bene, ma anche nel male, come quando non riesci a giocare, che è la cosa che più vorresti fare. Però, sei sempre parte di un gruppo e se hai la sensazione di essere utile alla squadra, questo ti può ancora dare grandi motivazioni. Non si accetta perchè uno si allena, fa le cose bene, nello stesso modo dei tuoi compagni ed è difficile da accettare il fatto che giochi un altro e non tu. Ma sono decisioni che prende l’allenatore che non potrà mai mettere due giocatori nella stessa posizione. All’inizio è stato molto difficile perchè arrivavo da una stagione piena di gioie, nella quale fino all’ultima partita abbiamo dovuto fare i calcoli per riuscire a prendere meno gol possibili e restare la miglior difesa del campionato e, alla fine, ci siamo riusciti. All’inizio di questa stagione, ho cominciato a capire qualcosa, soprattutto con l’arrivo di Lucio e mi son detto ‘quest’anno sarà molto dura’, ma non mi sono dato mai per vinto, ho continuato a lavorare e mi sento sempre titolare di questa squadra”.
Una volta, Francesco Toldo disse non bisogna mai staccare la spina, perchè quando sei chiamato in causa devi rispondere….
“Esatto. Bisogna pensarla sempre così, solo che la visione in questo momento deve essere un po’ diversa, accettata: sei lì, però devi essere pronto perchè quando vai in campo devi giocare come un titolare. Allora devi allenarti bene, essere pronto in panchina, e quando non fai parte neanche della panchina, essere comunque un riferimento positivo per la squadra perchè alla fine la cosa più importante è sempre la vittoria. Se vinciamo siamo tutti contenti. Mi considero già un giocatore molto fortunato ad aver disputato, in tutti questi anni ,le partite che sono riuscito a giocare”.
L’avversario più forte che ha affrontato? Gli attaccanti?
“Ho avuto come compagni grandi attaccanti che poi ho avuto come avversari ma non nel miglior periodo: Ronaldo, Vieri e Roberto Baggio. Però un avversario davvero pericoloso è stato Shevchenko, un giocatore che mi teneva sempre all’erta. Di solito, durante una gara, si riesce ad avere qualche attimo di maggior tranquillità , con lui no”.
C’è un giocatore che invece è contento di non aver mai affrontato o qualcuno che rimpiange di non aver affrontato?
“Fino ad ora no. Potrei dire di aver affrontato quasi tutti quelli che volevo, magari non nei momenti nei quali erano al livello più alto come Cristiano Ronaldo. Messi, invece, l’ho affrontato con la Nazionale colombiana poco tempo fa. Colui che meglio ricordo, che per me è stato più significativo, è Ronaldo quando ho disputato la prima partita ufficiale con la mia Nazionale in Coppa America nel 1997 contro il Brasile. Mi son detto ‘qui o faccio bene o basta, sarà tutto finito’, c’erano Ronaldo e Romario e io mi sono detto ‘va bene, ce la devo fare’. Abbiamo perso 2-0 però siamo riusciti a non far segnare Ronaldo. Una bella soddisfazione personale”.
Il sogno di Ivan Cordoba?”Tutti danno scontato che sia la Champions, però bisogna desiderarlo fortemente così come a suo tempo abbiamo sognato il campionato o una semplice, fra virgolette, Coppa Italia che per noi ha significato tanto, così bisogna sognare, come ho sognato io la Coppa America. Non l’avrei sognata, invece è arrivata. Bisogna solo lavorare bene, cercare sempre di migliorare perchè a volte nella vita arrivano dei momenti in cui pensi di stare benissimo, qualcuno ti dà una sberla e ti dice che devi migliorare ancora. Così succede nel calcio, finchè arrivi ai massimi livelli e puoi vincere tutto quello che ti passa davanti.
Il gol più importante che realizzato da Cordoba? Non sono pochissimi… “Quello che ha permesso alla Colombia di vincere la finale di Coppa America. à? stato sicuramente il più significativo. Nell’Inter, ricordo un bel gol contro il Newcastle in Champions League per un 2-2 che ci ha permesso di passare il turno perchè stavamo perdevamo in casa 2-1. Poi i due gol che ho realizzato dopo il ritorno dall’infortunio al ginocchio: contro il Napoli, se non fossi già guarito dall’ infortunio forse non avrei fatto quel gol, forse il ginocchio avrebbe avuto meno forza; quello contro la Reggina, poi, è stato davvero strano per uno come Cordoba: stop e gol alla Crespo. Vedendo come ci segnava Crespo in allenamento qualcosa ho imparato…(ndr.: sorride)”
Si immagina ancora nel calcio quando chiuderà la carriera da caliatore?
“Sì, facendo ancora qualcosa di positivo. Non mi vedo allenatore, ma non si sa mai perchè mi mancherà il campo, l’agonismo e come allenatore queste cose le senti più vicine. Però non mi sento di fare l’allenatore, mi piacerebbe assumere un ruolo a livello dirigenziale”.
L’ultima cosa. C’è una parola spagnola, suerte…Cordoba si considera una persona fortunata?
“All’inizio dell’intervista lei mi chiedeva di quello che ho imparato. Prima dicevo che non credo nella sorte, credo in Dio, ho tanta fede e mi baso su questo, ma allo stesso tempo ho letto qualcosa che per me è stato molto importante sul significato della sorte. La fortuna è lì dove si incrociano, il lavoro, quello che fai, e il destino, quindi, se fai le cose bene e queste si incrociano col destino, ecco quello è un momento di fortuna. In questo senso mi sento una persona fortunata, perchè ho avuto tantissimo e questo è stato il vero motivo che mi ha spinto a devolvere qualcosa. Sento di aver ottenuto tanto e mi sento il dovere di dare qualcosa anche agli altri. Per questo abbiamo creato la nostra fondazione, per cercare di aiutare chi ha meno”.
fonte: inter.it